L'11 maggio 1978, aula bunker delle Vallette di Torino: processo alle Brigate rosse (Archivio LaPresse)

Eravamo comunisti, in guerra col terrorismo

Francesco Pacifico

Gli anni Settanta a Torino, le Brigate rosse e il Pci, il diritto alla delazione, la collaborazione con i magistrati e la polizia. Giuliano Ferrara spiega in un’intervista perché l’equazione di Salvini brigatisti-comunisti è “biada per ignoranti”

“Fu un’operazione borderline. Fu una battaglia in deroga alla democrazia. Anzi era una guerra, fatta con i mezzi della politica, ma era una guerra civile, senza regole, senza le divise, asimmetrica, come i jihadisti di oggi, la peggiore”. Nel 1979 Giuliano Ferrara scrive su Repubblica un commento – “Diritto alla delazione” – che per la prima volta rende pubblici il collateralismo, la commistione di ruoli, la grande alleanza tra Dc e Pci nella lotta al terrorismo rosso. Aveva 20 anni il futuro inventore del talk tivù politico spazzatura, il ministro ai Rapporti con il Parlamento del primo governo Berlusconi (e teorico del berlusconismo) e fondatore del Foglio, quando a Torino s’inventò il “questionario popolare” per denunciare il brigatista della porta accanto: “Il terrorismo lo abbiamo sconfitto con la delazione: Caselli, Dalla Chiesa, il pentimento di Peci, storie tragiche, ma mente chi dice il contrario”, dichiara a Lettera43.it. Secondo Ferrara mente anche Matteo Salvini – “La sua è un’infamia” – quando dopo l’arresto e il rientro in Italia dell’ex Pac Cesare Battisti, definisce un’aggravante la militanza rossa: “E’ qualcosa fuori dal mondo che metta assieme con tanta leggerezza i termini terrorista e comunisti. Questi usano le parole, le categorie storiche, la cultura, l’intelligenza come i cocainomani usano la cocaina”.

   

In quegli anni il Pci – a Torino, ma non solo – abbandonava le ultime velleità rivoluzionarie, diventando strumento di repressione controrivoluzionaria: raccoglieva informazioni tra i suoi iscritti, faceva da collante tra politica e procura, soprattutto faceva opera di delazione su quell’album di famiglia denunciato da Rossana Rossanda. E proprio il centro sabaudo era il principale laboratorio di una doppia trasformazione: del Pci e di Giuliano Ferrara. Perché Torino, racconta l’interessato, “va messa a fuoco: c’erano le fabbriche al cui interno si sviluppò a macchia d’olio il fenomeno delle cellule brigastiste, finì con i 61 licenziati Fiat, la battaglia contro gli altri licenziamenti di Romiti, con Berlinguer ai cancelli di Mirafiori che diceva che bisognava occupare le fabbriche… Il movimento operaio fu sconfitto a Torino perché il terrorismo aveva posto le premesse della sua disfatta. Naturalmente era inevitabile la marcia dei 40 mila, perché non era accettabile che la principale industria del paese cadesse in mano ai terroristi”.

     

“Dopo la morte di Guido Rossa saltammo una barriera, una linea rossa, non molto sottile per altro”. Allora lei inventò il famoso questionario? “Sì. C’era la famosa quinta domanda: ‘Avete informazioni da fornire riguardo possibili attività terroristiche nel vostro quartiere o nella vostra fabbrica?’. Fu uno scandalo”

E’ in questo clima che si muove Ferrara, mandato sotto la Mole da Giancarlo Pajetta per dare il la a una carriera nel partito che avrebbe potuto portarlo – lui figlio dell’aristocrazia rossa, cresciuto prima sulle gambe di Togliatti e poi a Mosca – forse anche alla direzione del Pci. “Io sono arrivato a Torino il 5 novembre del 1973 e ne sono venuto via nel settembre del 1982. Sono stato capo della sezione operaia della Fiat Mirafiori, che allora aveva 2 mila iscritti ed era il tempio della classe operaia, poi capo del coordinamento operai Fiat provinciale e ancora capo della commissione problemi dello Stato. Che voleva dire terrorismo. Erano i miei 20 anni, ero piuttosto impulsivo, mio padre diceva: ‘Non sei un democratico, sei un controterrorista’. Questo è stato il mio destino di militante politico”.

   

Direttore, che cosa risponde alle accuse di Salvini?

“Di Salvini non parlo. Non dico una parola sulle persone che disprezzo. Non parlo delle persone che si travestono da militari”.

   

Allora partiamo dalla delazione.

“Torino era una realtà particolare: lo storico inglese Thomson la chiamava ‘Opacità operaia’. Non era una città togliattiana, non era una città comunista di tipo nazional-popolare come Roma, la sua classe operaia era secessionista: l’operaio massa, i meridionali, c’era un’idea per cui opacità operaia voleva dire omertà. Tutto potevi fare, ma non certo denunciare l’esistenza di nuclei armati proletari all’interno delle fabbriche”.

    

Cosa che lei e i suoi faceste.

“Certo. Ma erano riluttanti a farlo gli operai, salvo che all’interno delle sezioni di partito o in circoli ristretti. In questo erano ambigui anche i sindacati e le Camera del lavoro. Nei primi anni 70 dovetti fare una battaglia per il riconoscimento della realtà e contro la tentazione di dire ‘sono fascisti rossi’”.

   

Invece i brigatisti erano i vostri concorrenti.

“Appunto. Dietro la nostra battaglia c’era una doppia ragione: la prima, per me che venivo da una famiglia togliattiana, è che la democrazia è il quadro nel quale svolgere la lotta politica, anche quella dei comunisti. Quindi va preservata, anche per andare al governo, cosa che fu almeno tentata con il compromesso storico”.

  

L’altra ragione, quella più strategica?

“C’era una battaglia per la guida del movimento operaio: il partito armato non era composto da masse sterminate come quelle organizzate da noi, ma era un’avanguardia agguerrita e determinata che condizionava o orientava la vita all’interno della fabbrica meccanizzata e capitalistica: facevano i cortei interni, provocavano la gerarchia con forme democraticamente intollerabili, sparacchiavano, gambizzavano e ammazzavano. Non ho mai partecipato a tanti funerali come in quegli anni”.

  

Voi rispondeste con il cosiddetto patto Pecchioli-Cossiga, spesso anche usando la forza.

“Ugo Pecchioli era un vecchio funzionario di partito che si occupava di ordine pubblico e parlava, parlava solo, con il ministro degli Interni dell’epoca. Tutto qui. Ma non ci fu violenza, magari ci fosse stata! Solo attività civica, dove noi eravamo vittime. L’ex ministro Virginio Rognoni mi chiese di armarmi, visto i rischi che correvo. Montanelli denunciò che ero uno che faceva riunioni in Val di Susa per recuperare le armi dei partigiani e io lo querelai. C’è ancora qui da me una bellissima poltrona che regalai a mio padre, frutto dei soldi del risarcimento”.

  

Allora che cosa eravate?

“Eravamo un partito d’apparato che fiancheggiava l’ordine precostituito, la Questura. Io mi ricordo ancora del vicequestore Fiorello. E ci muovevamo in tutti i modi: se ammazzano Casalegno, tu cerchi di capire chi è stato, in quali condizioni è maturato l’omicidio, cerchi di capire se è venuto dalle fabbriche o dalle università”.

 

Davate informazione alla polizia?

“Era uno scambio reciproco. Eravamo un partito di Stato”.

   

Altro?

“Facevamo le riunioni con magistrati come Giancarlo Caselli o Luciano Violante. Abbiamo formato noi le giurie popolari nei processi alle Brigate rosse. Facevamo le riunioni in sezione per convincere i compagni che avevano rifiutato di partecipare come giudici popolari. Dicevamo loro: ‘E’ una cosa rischiosa, ma è tuo dovere farlo’. Chiaramente questo è contro lo stato di diritto, i partiti non devono interferire con le giurie popolari”.

  

“Improvvisamente, l’Italia si è resa conto attraverso il processo Sofri che odiava il terrorismo. Poi vedo un paese coraggioso davanti al caso Battisti, un paese che sputa sul terrorismo. Quella di Sofri, che è innocente, e quella di Battisti sono due storie diverse, ma quest’Italia coraggiosa in ritardo mi fa ridere”

Nel Pci però ci furono forme di vicinanza alle Br.

“Il Partito comunista non era lontano, era totalmente dall’altra parte. Detto questo, il partigiano Lasagna in Liguria era stato comunista, Feltrinelli era stato un editore comunista, Pietro Secchia era il vicesegretario del Pci, c’erano gli ex partigiani. Marxismo, comunismo, gli aiuti dei servizi segreti dei paesi socialisti... era tutto un brodo di coltura dove il terrorismo era nato. E poi c’era chi guardava con simpatia a quel mondo. Io a Torino denunciai Marco Revelli che faceva le 150 ore perché nelle sue 150 ore si era ambigui con il partito armato. Avevo rapporti spaventosi con la grande avvocatessa Bianca Guidetti Serra e tutta la componente giellina. Nella pratica quella della fermezza era una battaglia di minoranza”.

  

Quando arriva la svolta nel Pci?

“Dopo la morte di Guido Rossa e sotto lo stimolo di Giorgio Amendola saltammo una barriera, una linea rossa, non molto sottile per altro”.

  

Allora lei inventò il famoso questionario?

“Sì. C’era la famosa quinta domanda: ‘Avete informazioni da fornire riguardo possibili attività terroristiche nel vostro quartiere o nella vostra fabbrica?’. Fu uno scandalo, contrario a ogni stato di diritto, era anonimo. Lo facemmo insieme con la procura della Repubblica, il Consiglio regionale, i partiti democratici e antifascisti. Quelli di noi più coraggiosi capirono che era necessario ‘uno stato di eccezione’ per isolare i terroristi”.

  

La risposta dei compagni?

“Alla Camera del lavoro o nella V lega di Fiom non lo volevano fare il questionario, anche perché era una battaglia contro l’opacità operaia e sociale: ognuno si fa i cazzi suoi e non andava bene. Nuto Revelli, eroe della Resistenza, diceva: ‘Noi partigiani quelli che facevano la spia, li seccavamo’. Se la cultura era quella di ‘stendere’ i delatori, la delazione non poteva essere autorizzata”.

  

Quale fu la posizione di Botteghe Oscure?

“Prima del XII Congresso del partito si chiedevano tutti se Berlinguer avesse avallato il questionario antiterrorismo. E Berlinguer, con molta sagacia, non solo lo avallò nella relazione introduttiva, ma fece un aperto plauso ai compagni torinesi”.

  

Bocca raccontò che anche lei fu denunciato…

“Ci fu una cosa molto divertente: un solo quartiere di Torino decise di non fare il questionario, la Crocetta, a maggioranza di democristiani di destra: lì, per paura, si vestirono da avvocati del buon diritto. Siccome io non potevo dormire sempre nella stessa casa, per un periodo andai dal compianto professor Sermonti, che viveva da quelle parti”.

  

E cosa accadde?

“Ero giovane, ero massiccio, tornando a casa si cantava per le scale, anche in russo. Ci furono 50 segnalazioni alla polizia che alla Crocetta abitava probabilmente l’assassino di Casalegno. Una mattina il professor Sermonti si vide sfondare la porta dalla Digos e mettere un mitra alla faccia. Io avevo già lasciato quella casa. Lui ebbe solo la forza di dire: ‘Io sono solo amico di Giuliano Ferrara’”.

  

Ma il questionario portò dei risultati?

“Creò un clima furente contro i terroristi. E causò anche dei morti tra i nostri. Il primo presidente del consiglio di quartiere che varò il questionario, Michele Zaffino, rischiò di essere ammazzato il giorno dopo. Fu salvato da informazioni di polizia: ma due settimane dopo fu ucciso il barista che aveva denunciato la presenza di due che volevano colpire Zaffino”.

  

Qualcosa a Salvini vorrà dirla?

“Ripeto, neppure una parola per quell’infamia”.

 

Entrambi avete avuto una militanza giovanile comunista…

“Salvini non ha un passato, ma vive un eterno presente… L’equazione comunisti uguale brigatisti nel caso Battisti è qualcosa di ridicolo, scandaloso, tutta biada per ignoranti. Si sa benissimo che Battisti è difeso da Erri De Luca, Roberto Saviano e altre star come Carla Bruni, la moglie di Sarkozy, non è mai stato tutelato dal Pci. Quello di Battisti è un caso penoso, una canaglia che ha fatto 37 anni di latitanza e alla fine per fortuna è stato rimpiattato e messo in galera”.

  

Però?

“Però tutto quello che circonda questa roba, il regalino, Bolsonaro, quel fascista ignobile di Bolsonaro, quell’altro che sta al gioco per prendere quattro voti, cioè il Truce, il ricevimento con la parata, siamo di fronte a una delle immagini più infami della storia della Repubblica con quel falso ministro della Giustizia e quel falso ministro degli Interni. Ma nemmeno nella Repubblica democratica del Congo avvengono certe cose”.

   

La verità storica è diversa.

“Ma certo ed è che il Pci ha contribuito a sconfiggere il terrorismo. Ma nella narrazione attuale non lo si può neanche dire. Ed è pazzesco, guai ai vinti. E c’è ancora una cosa più pazzesca”.

  

Quale?

“Ho raccontato tutto questo mio passato, se ha senso, per spiegare che assisto a uno strano fenomeno: quando lottavamo contro il terrorismo eravamo isolati da molti borghesi, che si appellavano allo stato di diritto e non volevano seguire la nostra linea d’attacco. Per non parlare di molti cattolici che non volevano essere divorati dall’impeto dei comunisti, o del ceto medio che si era dissolto”.

  

La conclusione?

“Fui minoranza allora e mi sono trovato in minoranza in altre battaglie che mi sembravano giuste. Improvvisamente, l’Italia si è resa conto attraverso il processo Sofri che odiava il terrorismo. Poi vedo un paese coraggioso davanti al caso Battisti, un paese che sputa sul terrorismo. Quella di Sofri, che è innocente, e quella di Battisti sono due storie diverse, ma quest’Italia coraggiosa in ritardo mi fa ridere. Come mi fa ridere che un signore che allora forse non era neppure nato come Salvini, vestito da poliziotto, vada con un certo Bonafede a ricevere Battisti a Ciampino. E trasformi la giusta soddisfazione istituzionale in un circo”.

    

E’ una mistificazione?

“Ammazza se sono mistificatori. Di più, sono pericolosi. E vanno cacciati al più presto”.

   


 

Questa intervista è stata realizzata per Lettera43.
La trovate anche online qui.

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