Foto LaPresse

Agli ordini dei pm

Ermes Antonucci

Non più super partes, ma vanitosi Holmes e abili Spielberg. La preoccupante centralità degli ufficiali di polizia giudiziaria

L’annullamento della sospensione dal servizio del maggiore dei carabinieri Gianpaolo Scafarto, al centro del caso sulle manipolazioni degli atti di indagine dell’inchiesta Consip, non toglie il fatto che l’autore delle alterazioni (per il Tribunale del Riesame di Roma non dolose, ma semplicemente involontarie) sia ancora indagato dalla procura capitolina per falso, depistaggio e rivelazione di segreto istruttorio. Non elimina il ricordo delle parole espresse di fronte al Csm dal procuratore di Modena, Lucia Musti, sui metodi usati durante le indagini dagli ufficiali di polizia giudiziaria (definiti, senza mezzi termini, “esagitati”, autori di intercettazioni “fatte coi piedi” e di informative che erano “roba da marziani”). Non elimina, insomma, tutti i dubbi su un metodo d’inchiesta che, con le sue incredibili distorsioni delle informative e dei rapporti di indagine, sembrò (sembra?) essere stato consapevolmente condotto per arrivare ad abbattere l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, tramite il coinvolgimento forzato del padre Tiziano nelle manovre dell’imprenditore Alfredo Romeo.

 

 

Spesso protagonisti di un teatrino fatto di atteggiamenti sfacciati, valutazioni personali, provocazioni nei confronti degli avvocati

Ma ciò che l’ultima svolta nel caso Consip non elimina è soprattutto la sensazione preoccupante, molto diffusa tra gli addetti ai lavori (avvocati in primis, ma anche osservatori occasionali della macchina giudiziaria, come i giornalisti, che però tacciono) e in fondo tra chiunque abbia avuto la possibilità di assistere a un’udienza di un processo penale, sulla centralità assunta dagli ufficiali di polizia giudiziaria nel corso delle indagini e dei dibattimenti, e sul comportamento da loro tenuto in aula quando sono chiamati a testimoniare sulle condotte degli imputati. E’ quest’ultimo il contesto che più di frequente fa stropicciare gli occhi a chi assiste, con ufficiali di polizia giudiziaria protagonisti di un teatrino fatto di provocazioni nei confronti degli avvocati degli imputati (spesso sfociate in veri e propri scontri), sguardi di intesa con i pubblici ministeri, atteggiamenti sfacciati, eccedenze rispetto a quanto viene loro chiesto di riferire (da valutazioni personali non richieste sui fatti oggetto di indagine a letture fantasiose, ad esempio, sui linguaggi usati nelle intercettazioni), per finire con affermazioni e ammissioni vanitose sulle tecniche di indagine utilizzate che sembrano sbalzare fuori da una bolla fatta di esaltazione personale e protagonismo mediatico da serie tv americana stile “The Wire”.

 

Chi scrive, per esempio, ha personalmente assistito a una scena in cui un capitano della Guardia di Finanza si è rifiutato di rispondere alle domande dell’avvocato dell’imputato che lo stava contro-esaminando, guardandolo negli occhi e dicendo: “Lei, avvocato, ha sbagliato domanda”. Per non parlare delle interpretazioni (spesso non richieste) espresse sempre dagli ufficiali di polizia giudiziaria sulle conversazioni telefoniche intercettate (un esempio: “Quando usava la sim straniera e parlava in inglese, l’imputato aveva un linguaggio piuttosto spigliato”). Un’analisi quasi psicoanalitica meriterebbe, poi, il rapporto che viene a instaurarsi tra il pubblico ministero e l’ufficiale di polizia giudiziaria durante la deposizione di quest’ultimo, che di frequente consiste in una sorta di recitazione di un copione concordato.

 

Si trasformano in esperti e supercosulenti. Finiscono per diventare, davanti ai giudici, il cuore di tutto l’impianto accusatorio

Ma ciò che più colpisce, come mi confida un importante avvocato penalista, è “il particolare trattamento di favore che viene concesso alla deposizione dell’ufficiale di polizia giudiziaria, al quale viene in qualche modo attribuita una patente di credibilità per il solo fatto di rivestire una funzione pubblica”. Così, il capitano della Guardia di Finanza o il maggiore dei Carabinieri finisce per essere chiamato a riferire su alcuni aspetti delle indagini non in quanto autore di quest’ultime (e dunque parte coinvolta), bensì come esperto. “Si trasforma in un ‘superconsulente’ del pubblico ministero, dotato – anche agli occhi del collegio giudicante – di un’aura di competenza e serietà, difficilmente smentibile”. Ciò naturalmente accade soprattutto in processi che hanno per oggetto materie di particolare complessità tecnica (economiche, finanziarie, informatiche, ambientali ecc.). Così, è diventata prassi per i pm, anche a causa delle ristrettezze di budget, non affidarsi alle valutazioni di un consulente tecnico (commercialista, esperto contabile, perito chimico) ma a quelle dell’ufficiale di polizia giudiziaria, nonostante quest’ultimo abbia una conoscenza della materia tecnica di gran lunga inferiore rispetto al primo. Col risultato che gli ufficiali di polizia giudiziaria finiscono per diventare, davanti ai giudici, il cuore di tutto l’impianto accusatorio.

 

 

 

“La deposizione di un ufficiale di polizia giudiziaria pone ogni volta seri problemi, su due versanti”, spiega al Foglio Tullio Padovani, docente di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa e difensore in numerosi casi giudiziari di primo piano (come Monte dei Paschi). “Da un lato, attraverso la valvola del teste esperto si finisce col far sì che l’ufficiale di polizia giudiziaria esprima ciò che solitamente un testimone non può esprimere, cioè valutazioni: apprezzamenti su atteggiamenti, situazioni, luoghi, condizioni. Se poi si tratta di un ufficiale di polizia giudiziaria particolarmente qualificato, come un carabiniere del Noe (Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri, ndr), questi riferirà sulla situazione in termini strettamente valutativi. L’altro versante riguarda i limiti della testimonianza: la polizia giudiziaria non può riferire sulle dichiarazioni rese dall’imputato ma spesso si trova il modo di aggirare questo divieto. Ad esempio, in aula non si può riferire sulle dichiarazioni rese da una persona ancor prima che questa assumesse la qualità di imputato, ma è sufficiente chiedere all’ufficiale di polizia giudiziaria di spiegare, ad esempio, quali iniziative di indagine hanno assunto dopo queste dichiarazioni, che così il divieto viene aggirato e si può ottenere una testimonianza altrimenti non possibile”.

 

“La complicità col pm – aggiunge Padovani – nasce dalla consuetudine del lavoro di indagine. La polizia giudiziaria è il braccio operativo del pm e spesso anche di più. Ci sono pm che hanno una guida più pregnante delle indagini e altri che si fanno invece volentieri trascinare. Entrambi credono nella colpevolezza dell’imputato. Solo che il pm fa il suo mestiere rappresentando l’accusa, mentre l’ufficiale di polizia giudiziario dovrebbe mantenere un atteggiamento meno partigiano, anche se in realtà non è così”. “Questa situazione – prosegue il professore – è evidente in fase di contro-esame della difesa, che per gli avvocati costituisce sempre un tormento. L’ufficiale cercherà in tutti i modi di depotenziare le domande, oppure di ridicolizzarle”. Bisogna poi aggiungere che “di regola il teste di polizia giudiziaria è in qualche modo protetto non solo dal pm, ma anche dal giudice, che vede in lui una persona disinteressa, pulita, genuina, che rende un servizio pubblico. Non è mica il teste citato dalla difesa, che invece viene visto con sospetto, perché chissà dove è stato pescato e chissà quali rapporti ha con l’imputato! Questi pregiudizi possono essere ignorati, oppure trattati in punta di forchetta, ma esistono, eccome. Il teste di polizia giudiziaria ha una patente di attendibilità che deve essere poderosamente smentita affinché ne sia dimostrata l’infondatezza”.

 

Dunque, come rimediare a questa insolita centralità acquistata dagli ufficiali di polizia giudiziaria, con tutto ciò che ne consegue sul piano della loro presunta maggiore credibilità? “Il processo è fatto di norme, ma, prima di queste, vive di costume. Le prassi, le consuetudini, i ruoli istituzionali percepiti si riflettono in maniera determinante sugli atteggiamenti, sull’interpretazione delle norme e sul modo di metterle in pratica. Per modificare veramente il processo, quindi, bisogna modificare le condizioni istituzionali dei protagonisti e i loro comportamenti. Un giudice di common law è educato a vedere sullo stesso piano il pubblico ministero, quindi lo Stato, e la difesa. C’è un conflitto tra un singolo cittadino e la comunità e il giudice appartiene a un’altra comunità ancora, essendo elettivo o nominato con garanzie tali da collocarlo in uno spazio tutto suo. Da noi, invece, il giudice non si pone fuori da una contesa che si svolge tra lo Stato e l’imputato, ma è una parte dello Stato stesso”.

 

C’è un caso che più di tutti aiuta a cogliere ogni aspetto della “deriva” degli ufficiali di polizia giudiziaria, e si colloca all’interno dell’“inchiesta del secolo”, quella sul “Mondo di Mezzo”, erroneamente ribattezzata per molto tempo “Mafia Capitale”, prima che i giudici di primo grado smontassero la narrazione – mediatica piuttosto che fattuale – sulla natura mafiosa dell’associazione a delinquere messa in piedi da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi nella Capitale.

 

“E’ il colonnello Russo ad avere ‘l’intuizione’ della natura mafiosa dell’associazione di Carminati”. La regia dei video di persone arrestate

Lo racconta al Foglio l’avvocato Cataldo Intrieri, legale di Carlo Maria Guarany, vicepresidente della cooperativa “29 Giugno” accusato di associazione mafiosa e corruzione aggravata: “L’indagine si è chiusa con una doppia maxi informativa condotta da due diversi reparti del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri (Ros): il Secondo Reparto e il Reparto Anticrimine. Quando l’indagine su Carminati languiva per mancanza di sbocchi, il Reparto Anticrimine vide arrivare alla sua guida un nuovo comandante, il colonnello Stefano Fernando Russo, direttamente dalla Sicilia dove aveva già lavorato col procuratore Giuseppe Pignatone. E’ Russo, come ha sostenuto lui stesso in un contro-esame, ad avere l’‘intuizione’ della natura mafiosa dell’associazione guidata da Carminati”. “In realtà – prosegue Intrieri – alla fine l’unico filone a dare risultati è quello sulla corruzione delle cooperative, affidato al Secondo Reparto. Seguendo Buzzi e i suoi collaboratori, infatti, gli investigatori inquadrano alcuni appalti – non tanti, una ventina – che paiono sospetti e che fanno emergere un quadro di corruzione e complicità nel sottobosco del Comune. E’ una ordinaria indagine di corruzione, eppure a questo filone di indagini viene unito anche il filone sull’associazione di stampo mafioso, che è rimasta esclusivamente una suggestione”. “La soluzione sposata dal Tribunale di due associazioni ordinarie – conclude Intrieri – è null’altro che la certificazione di questo: ci sono due associazioni perché ci sono due indagini e una di queste, quella sul malaffare del Comune, non ha nulla a che vedere con la mafia”.

 

E’ lo stesso colonnello Russo a rivendicare, con evidente orgoglio, la paternità dell’ipotesi di associazione di stampo mafioso, rispondendo al contro-esame dell’avvocato Intrieri in un’udienza del 12 aprile 2016. Ma è nel corso di questa testimonianza che emerge un altro aspetto significativo della vicenda, il più incredibile: l’esistenza di un “ufficio pubblicità” del Ros.

Dopo aver risposto provocatoriamente a una domanda dell’avvocato Intrieri su quali fossero i reati che costituivano il cuore delle indagini (“Basta prendere i capi di imputazione”, come a dire “si legga le carte”), Russo ammette con il massimo della serenità di essersi occupato della “comunicazione” degli arresti compiuti nell’inchiesta “Mafia Capitale”.

 

Le televisioni e i siti dei quotidiani italiani furono inondati da mini-clip con le registrazioni video degli arresti e audio delle intercettazioni degli indagati, con tanto di logo dei Ros che campava in bella vista. Celebre il fermo di Massimo Carminati, l’“uomo nero” della presunta “cupola”, braccato dai carabinieri in una stradina di Sacrofano, piccolo paesino alle porte di Roma, a bordo della sua Smart. “Posso chiarire tranquillamente la vicenda, la stampa l’ho curata tutta io personalmente”, ammette Russo incalzato dalle domande di Intrieri, aggiungendo di averlo fatto per “tutelare il diritto di cronaca”.

 

“Ci sono pm che hanno una guida più pregnante delle indagini e altri che si fanno invece volentieri trascinare” (Tullio Padovani)

In altre parole, un funzionario di polizia giudiziaria si dedicò alla regia, al montaggio e alla diffusione di video di persone arrestate. “Ho avuto un mandato generico da parte della Procura di curare la diffusione della notizia, dopo gli arresti. Sulla base di queste deleghe generiche ho gestito la fase della diffusione, della divulgazione della notizia, basandomi su quelli che sono sia i principi che mi sono stati dati inderogabilmente dalla Procura, ossia utilizzare solo materiale che non fosse soggetto a segreto e che fosse pubblico”.

E nel controesame il colonnello Russo illustra anche i metodi di montaggio utilizzati: “Si sono creati dei piccoli spezzoni, frammenti minimi di intercettazioni telefoniche montati su video indicativi o del luogo dove si svolgeva la conversazione o delle persone con cui parlavano che potessero dare un’immediata percezione dell’indagine”.

Non solo vanitosi Sherlock Holmes, quindi, ma anche abili Steven Spielberg. Benvenuti nel mondo degli ufficiali di polizia giudiziaria.

Di più su questi argomenti: