La sede del Consip in Via Isonzo (foto LaPresse)

Scafarto contro tutti

Annalisa Chirico

“Mi sono rotto di quei pm che ti scaricano tutto addosso”. Indagini, trappole, rapporto con Woodcock. Colloquio con il carabiniere accusato di essere il Manipolatore del caso Consip

Nel primo giorno di rientro in servizio, Gianpaolo Scafarto incontra il Foglio nella saletta riservata di un caffè romano, a pochi passi dalla Camera dei deputati. Camicia bianca e jeans, zainetto in spalla, l’ex capitano del Noe è un uomo di bell’aspetto, atletico e ruspante. “Prima d’incontrare Sergio De Caprio, facevo nuoto cinque giorni a settimana. Nel 2013 ho cominciato a lavorare con il colonnello, e ho smesso di vivere”. Scafarto, 45enne da Castellamare di Stabia, è assurto agli onori della cronaca nelle vesti, poco encomiabili, di Grande Manipolatore. Secondo la procura capitolina, Scafarto avrebbe manomesso atti investigativi compiendo “orrori di sicuro rilievo penale” – qualificati invece dal tribunale del Riesame come “errori involontari” – con il deliberato obiettivo di incastrare Tiziano Renzi, padre dell’allora presidente del Consiglio. Scafarto è l’investigatore a capo del primo gruppo di carabinieri che lavorano all’inchiesta Consip quando il procedimento è in corso d’istruzione presso la procura di Napoli, sotto la responsabilità dei pm Henry J. Woodcock e Celeste Carrano. Finito sotto indagine per falso materiale e ideologico, depistaggio e rivelazione del segreto d’ufficio, l’ufficiale viene sospeso dal servizio per decisione di un gip, poi riabilitato dalla decisione del Riesame avverso la quale, pochi giorni or sono, la procura di Roma è ricorsa in Cassazione. Per piazzale Clodio, il provvedimento di reintegro “si contrappone alle regole del diritto sostanziale e processuale, della logica e del buonsenso”. Parole pesanti. “I pm di Roma la mettono sul personale, e quando fai così perdi lucidità”, replica il diretto interessato. Secondo il procuratore capo Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi, tutti i falsi presenti nelle informative mirano a “espropriare l’autorità giudiziaria inquirente del potere-dovere di direzione delle indagini e di valutazione, completa e non inquinata, degli elementi di fatto posti a fondamento dell’accusa”. “Ho redatto in diciassette giorni un’informativa delicata che richiedeva almeno due mesi di lavoro – prosegue Scafarto – E’ comprensibile che io abbia potuto commettere qualche errore”. Errare è umano, d’accordo, ma resta un punto: “Se un ufficiale di polizia giudiziaria è impreciso e raffazzonato – scrivono i pm capitolini – le patologie connesse a tale assenza di professionalità dovrebbero riverberarsi in tutte le direzioni”. Invece, maggiore, i suoi “errori involontari” contribuiscono tutti a suffragare la tesi della colpevolezza di Renzi senior e la necessità di arrestarlo. Una coincidenza anomala, non trova? “Che ci fossero gravi indizi di colpevolezza a carico di Tiziano Renzi, l’ho messo nero su bianco, e non cambio idea. Il ricorso dei pm romani è carico di livore e rabbia nei miei confronti, per il solo fatto che mi sono permesso di sostenere che Tiziano Renzi, Carlo Russo e pure Luigi Marroni (ex ad Consip, nda) andavano indagati per corruzione e turbata libertà dell’incanto. Se uno analizza i singoli episodi di falso, si rende conto che non ho agito con dolo”.

 

Scafarto avrebbe manomesso atti investigativi compiendo “orrori di sicuro rilievo penale” con l’obiettivo di incastrare Tiziano Renzi

Proviamoci. Nella chat Whatsapp con i suoi uomini, tra il 2 e il 3 gennaio 2017, nei giorni immediatamente precedenti la consegna dell’informativa ai magistrati napoletani, Scafarto chiede con insistenza di reperire un’intercettazione che dimostri il presunto incontro tra l’imprenditore Alfredo Romeo e Tiziano Renzi. Le risposte languono, Scafarto incalza: “Remo, per favore, riascoltala subito. Questo passaggio è vitale per arrestare Tiziano. Grazie. Attendo trascrizione”. Passano alcune ore, e Scafarto non riceve quello che ha chiesto. “Remoooooooo, hai trovato quel passaggio che dicevo?”, domanda. Il carabiniere risponde: “Sto trascrivendo. Ho trovato quel passaggio e sembra che sia Bocchino che dica quella frase”. Al capitano del Noe la risposta non piace, perciò insiste: “Ascolta bene e falla ascoltare pure a qualcun altro”. Il militare rincula: “Già fatto e siamo giunti alla conclusione che c’è Bocchino che, abbassando il tono della voce, dice quella frase”. Scafarto chiede che quel file audio con l’intercettazione gli venga inviato ma di fatto lo ignora perché nel testo finale attribuisce a Romeo le parole di Bocchino, avvalorando la tesi di un presunto incontro tra l’imprenditore casertano e il padre dell’ex premier. “L’ho spiegato nel primo interrogatorio ai pm romani”. Per la verità, quella volta lei si è avvalso della facoltà di non rispondere. Un servitore dello stato che si sottrae alle domande sulle modalità di conduzione delle indagini: una scelta disdicevole. “E’ il mio unico vero rimpianto. Ho assecondato la richiesta del mio avvocato, e ho sbagliato. Woodcock mi diceva l’opposto, avrei dovuto seguire il suo consiglio”.

 

Perché ha cambiato quel nome: Romeo al posto di Bocchino? “In quel periodo facevo la spola tra Castellamare e Roma, mi capitava di aprire e chiudere il pc in treno. Dopo la verifica dei miei, sulle prime recepisco la modifica, apporto la variazione di attribuzione della frase, scrivo Bocchino e poi chiudo l’apparecchio. Nel trasbordo, incidentalmente, il computer si spegne e quando lo riaccendo mi compare sul monitor la schermata per scegliere quale versione aprire. A quel punto sbaglio, seleziono la meno aggiornata, priva della modifica. Continuo a lavorare sullo stesso file senza accorgermi della svista. Il 7 gennaio trasmetto il file ai ragazzi che per due giorni non fanno altro che leggere l’informativa. Nessuno si accorge dell’errore, neanche Remo Reale. Nessuno”. E’ difficile dare credito alle sue parole. “Per quanto incredibile, è la verità. Il 21 dicembre 2016 Woodcock mi incarica di redigere l’informativa e di depositarla entro e non oltre il 9 gennaio. La procura di Roma va messa a conoscenza dell’intero quadro probatorio, è urgente. Io glielo dico al dottore: non ce la farò mai, dotto’, c’è Natale, Santo Stefano, Capodanno… Dovendo far tutto in diciassette giorni, mi fate lascia’ con mia moglie. Lui mi rassicura: non ti preoccupare, devi considerarla un’informativa interlocutoria, non definitiva, serve ai colleghi romani per avviare la loro inchiesta. Francamente non ci voleva uno scienziato per trovare l’errore, bastava notare la discrasia tra l’allegato con la trascrizione completa e l’informativa stessa. Invece non se n’è accorto nessuno, né il pm, né il gip, né gli avvocati. E poi, mi lasci dire, io mi sono rotto le palle di questi pm che ti scaricano tutto addosso. Ho lavorato con pm che ti facevano fare le inchieste intercettive, e io dicevo: dotto’, è meglio che la leggete pure voi. Ma no, siete bravi, rispondevano loro. Se tu confronti un’informativa di polizia giudiziaria con la richiesta di misura di custodia firmata dal pm e con l’ordinanza del gip, ti rendi conto che i testi sono identici per il sessanta percento Insomma, si passano i file per fare prima”.

 

Woodcock è stato indagato a Roma per falso e violazione del segreto, poi rapidamente archiviato. Invece lei e il colonnello Alessandro Sessa, all’epoca vicecomandante del reparto, siete tuttora sotto inchiesta per gli stessi reati e depistaggio. “Io e Sessa siamo gli sfigati della compagnia. Non sento Woodcock da un anno, è giusto così. Sono sfigato, mi lasci dire, ma non fesso. Se avessi voluto manipolare le prove, non avrei prodotto un falso così posticcio. Potevo entrare nel sistema informatico con le credenziali di un altro carabiniere e modificare la trascrizione originaria in modo da non essere minimamente identificabile. L’eventuale manipolazione sarebbe stata attribuita a un terzo, esattamente come nello scambio di nome tra Marco Canale e Marco Carrai”. Scafarto, lei più parla più sprofonda nell’ambiguità. Ora tira fuori un altro episodio increscioso: tra le varie “sviste”, a un certo punto fa capolino l’ipotesi di mettere sotto intercettazione l’imprenditore Carrai, scambiato per Canale, presidente di Manutencoop. “Sono stato io a rilevare l’errore. Viene da me il maresciallo Chiaravalle e mi dice: ho trovato un’intercettazione molto interessante tra Carrai, Marroni e l’avvocato Alberto Bianchi, introdotto da Francesco Bonifazi. Si sono riuniti negli uffici di Consip e parlano della cooperativa. Mi faccio inviare il file, leggo, rileggo, qualcosa non mi torna. Faccio una rapida ricerca su Google e scopro che il presidente di Manutencoop si chiama Canale. Mi procuro l’audio originale, riascolto e mi rendo conto dell’errore: ‘Canale’ è stato confuso per ‘Carrai’. Se non me ne fossi accorto, avremmo messo sotto intercettazione la persona sbagliata. Si rende conto dei guai che avremmo passato, essendo Carrai una persona vicina a Matteuccio?”.

 

“Il silenzio in procura è il mio vero rimpianto. Ho assecondato la richiesta del mio avvocato, e ho sbagliato”

Veniamo al capitolo inventato sul coinvolgimento dei servizi segreti: notate un suv, fate gli accertamenti, scoprite che il proprietario è un cittadino sudamericano, impiegato dell’Opera pia, tuttavia decidete che sia uno 007 ingaggiato da Palazzo Chigi per depistare le vostre indagini. “Sono stato io a verificare immediatamente l’identità di quell’uomo. Il suv, in effetti, somigliava a una macchina tecnica, di quelle che noi usiamo per i pedinamenti”. Perché lei ha redatto ugualmente quel capitolo? “Woodcock mi ha detto espressamente di compilare una sezione apposita, io ho eseguito”. Sentito dai pm romani lo scorso luglio, il pm partenopeo ha definito tale circostanza “totalmente falsa”, e pur escludendo la “malafede” del carabiniere, il magistrato ha dichiarato di ritenersi vittima di un “inganno”. Insomma il pm l’ha scaricato. “Io non mi sposto di un centimetro. Piuttosto rivolgerei una domanda ai pm romani: le persone da identificare, in relazione alla presenza di agenti segreti, erano tre. Che cosa hanno fatto in concreto i magistrati per individuarle?”. La sua tesi, maggiore, è che Roma insabbi per proteggere il fronte politico dell’inchiesta mentre voi da Napoli vi battete, con sprezzo del pericolo, contro i corrotti. Non è troppo? “Non uso la parola insabbiare, preferisco toni più garbati. Diciamo che sin dal principio non abbiamo condiviso tante scelte, nel modo più assoluto. I fatti parlano da sé”. Anche i “fatti alternativi”, se è per questo. Senza l’intervento della procura di Roma i cittadini avrebbero creduto a una fake inchiesta basata su prove false e con effetti politici destabilizzanti o, se vuole, eversivi. “Certe vicende ti provano, cambiano la prospettiva di come intendi servire le istituzioni. Io e Sessa siamo stati intercettati e perquisiti, un trattamento che non è toccato né all’ex comandante della legione Toscana Emanuele Saltalamacchia né all’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette. Woodcock non è stato perquisito, lo stesso Marroni, a mio giudizio, andava perquisito e indagato. Alla vigilia dell’arresto di Romeo il primo marzo 2017, ho rappresentato ai pm romani la necessità di eseguire una serie di perquisizioni, non se n’è fatto nulla. Tiziano Renzi e Carlo Russo sono entrambi indagati per traffico di influenze illecite, eppure uno viene perquisito e intercettato, l’altro no”.

 

Renzi senior è stato intercettato, gli avete piazzato le cimici pure nel giardino di casa a Rignano. “Lo abbiamo intercettato con l’autorizzazione della procura napoletana, Roma invece si è ben guardata. Peraltro, quelle cimici nella villetta non hanno captato alcunché, abbiamo fatto male le installazioni, mancava il segnale…”. Non ho ancora capito se lei sia più maldestro o spregiudicato. “Io non sono un bravo investigatore”. Ce ne siamo accorti. “Sono un metodico, non ho intuizioni. Applico il metodo De Caprio: noi carabinieri non siamo gli schiavi della procura. Presentiamo un progetto investigativo al pm che decide se restringere o ampliare il campo d’azione. Per fare ciò dobbiamo partire da una notizia di reato. La procura di Roma mi accusa di aver osato prospettare ipotesi corruttive a carico di Tiziano Renzi”. Lei si rappresenta la realtà come più le aggrada. La procura di Pignatone è critica sull’operato dei colleghi napoletani, i presunti “errori” hanno inquinato la genuinità della prova, è un fatto. “Perché sono solo i carabinieri del Noe o la Guardia di finanza, nella sezione specializzata della pubblica amministrazione, a condurre indagini così delicate? Perché la polizia si tiene a distanza? Col senno di poi, le dirò che hanno ragione loro, si evitano fastidi e intoppi. Se non disturbi il potere politico, fai carriera”. Lavorando a stretto contatto con Woodcock e De Caprio, lei ha curato indagini sensibili, da Finmeccanica a Consip, passando per Cpl Concordia. Lei faceva parte del Nucleo operativo ecologico, sezione specializzata in reati ambientali. Perché in questi anni vi siete occupati di appalti e corruzione? “E’ un’anomalia, non mi nascondo dietro un dito. Anche se una matrice ambientale la si trova sempre”.

 

Il caso Consip prende le mosse dagli appalti in odore di mafia al Cardarelli. “Al Noe c’è una sezione operativa centrale, dove operavo io con il colonnello De Caprio e una cinquantina di persone: non ci siamo mai occupati di reati contro l’ambiente. Di questi si occupavano gli altri 500 carabinieri sparsi sul territorio nazionale. E il colonnello giustamente s’incazzava quando qualcuno si sognava di usare uno del nostro reparto per un accertamento amministrativo. Significa sottoimpiegare professionisti qualificati con un percorso formativo diverso”. Veniamo ai suoi rapporti con De Caprio, alias capitano Ultimo, punta di diamante del nostro apparato investigativo. Lei è diventato il suo pupillo, ufficiale di collegamento tra il militare che arrestò Totò Riina e il pm Woodcock. “Quelli della mia generazione sono cresciuti con il mito di De Caprio. Agli inizi degli anni Novanta ero maresciallo a Palermo, e conoscevo il colonnello solo di nome. Quando nel 2013, appena quarantenne, sono arrivato al reparto tutela ambientale, ero emozionato all’idea di incontrarlo. De Caprio ha atteso due settimane prima di darmi un appuntamento, mi vedeva come l’intruso spedito lì dal generale Gallitelli chissà per quale ragione. Tre anni di lavoro al suo fianco mi sono valsi come venti. Ho imparato un metodo il cui primo comandamento impone la dedizione assoluta nella lotta contro il crimine: briefing quotidiani all’alba (in senso letterale), riservatezza, studio del ‘nemico’, come dice lui. Woodcock l’ho conosciuto successivamente”.

 

“Ho redatto in 17 giorni un’informativa che richiedeva due mesi di lavoro. E’ comprensibile che io abbia potuto commettere errori”

Qualcuno accusa De Caprio di aver costituito una cerchia ristretta di ufficiali fedeli soltanto a lui. ‘Il colonnello è una persona carismatica, ha un che di mistico, professa i valori della fratellanza e della lotta contro il male. Ma nel suo approccio non c’è settarismo, prevale piuttosto la logica della condivisione assoluta’. Lei, così giovane e ambizioso, si è trovato al fianco di uno dei principali investigatori italiani. “Un enorme onore. E dire che, a giudicare dagli errori emersi, non sono un grande investigatore. Forse ero quello più capace tra i meno capaci”. Nell’agosto 2015 De Caprio viene demansionato da Del Sette, e all’origine del provvedimento vi è una fuoriuscita giornalistica: una conversazione intercettata nell’ambito dell’inchiesta Cpl Concordia vede l’allora segretario Pd Renzi esprimere un giudizio poco lusinghiero su Enrico Letta. A distanza di qualche mese, De Caprio ottiene il trasferimento all’Aise e porta con sé ventitré carabinieri. Lei, Scafarto, è in predicato per seguirlo ma alla fine resta all’Arma. E dalla caserma del Noe continua ad aggiornare i suoi ex colleghi sugli sviluppi del Consipgate. “Non è così. Nel novembre 2015, mentre lavoriamo su Cpl Concordia, Woodcock ci chiede di raccogliere in un fascicolo a sé le evidenze riguardanti la centrale acquisti della pa. Già allora De Caprio è pienamente a conoscenza dell’oggetto dell’indagine, perciò mi stupisce che ad oggi la procura di Roma, nonostante le mie reiterate richieste, non abbia mai voluto sentire il colonnello. Se gli dessero l’opportunità di chiarire, il capo di accusa a mio carico, relativo alla rivelazione del segreto, cadrebbe immediatamente. De Caprio voleva sapere tutto, e ciò era perfettamente lecito. Se andavo a parlare con il dottore (Woodcock, nda) a Napoli, dovevo tornare a Roma e riferirgli ogni parola. Facevo spesso la spola tra la procura campana e la onlus del colonnello a Torre spaccata (Mistica, nda)”. Tra i file che lei ha trasmesso a capitano Ultimo, già insediato all’Aise, ve n’è uno, spedito a Forte Braschi via email, dal nome “Mancini.docx” che riporta informazioni relative ai rapporti tra un pezzo grosso del Dis, Marco Mancini, e Italo Bocchino. La domanda è: perché? “Non lo so. Glielo giuro, non me lo ricordo. Forse devo averglieli consegnati brevi manu nei mesi precedenti, lui se li sarà persi, come spesso gli capitava, e io glieli avrò rimandati. Ma non c’è reato, esiste una consolidata giurisprudenza in merito”. Perché un file su Mancini? “All’Aise De Caprio ricopriva un incarico strategico di controllo sull’operato dei militari. Quel file apre uno spaccato sulle modalità operative dei nostri agenti all’estero, si tratta di informazioni trasmesse de relato, per bocca di Bocchino. Non posso dire di più”.

 

“Se confronti un’informativa con la richiesta di custodia firmata dal pm ti rendi conto che i testi sono identici: è un problema”

Lo scorso febbraio De Caprio ha rinunciato alla nomina di Cavaliere della Repubblica. “Non voglio premi”, ha scandito. “Non mi sorprende, è un grande e io m’ispiro a lui”. Con risultati ben più modesti, si direbbe. Torniamo alla transizione all’Aise: in base a quanto risulta al Foglio, Del Sette e il capo di stato maggiore Gaetano Maruccia si oppongono al suo trasferimento. “Ho sempre sognato di approdare ai servizi. Come le dicevo, io non sono bravo nella polizia giudiziaria, mentre sono abbastanza bravo nella raccolta e nell’analisi informativa. L’opposizione dei vertici al mio trasferimento non mi sorprende. All’epoca Maruccia è al corrente delle indagini in corso, e ci ostacola. Ci toglie oltre venti unità e le spedisce all’Aise; poi ci manda in sostituzione una serie di rimpiazzi scarsi in numero e in qualità, persone mai viste prima”. Dalle indagini curate dai pm romani emerge che a un certo punto lei mira a mettere sotto intercettazione sia Del Sette che Maruccia. In un messaggio inviato a Sessa il 9 agosto 2016, lei gli confida di “pensare continuamente a queste intercettazioni e alla difficoltà di portare avanti questa indagine”; gli rappresenta inoltre che “è stato un errore parlare direttamente di tutto con il capo attuale”. “Io l’avevo detto a Sessa: se questi vengono a conoscenza dell’inchiesta, ci fanno passare un brutto quarto d’ora”. E’ stato profetico? “Sfigato, non profetico. De Caprio è allontanato dall’Arma perché si rifiuta di riferire alla scala gerarchica. Woodcock ci mette in guardia: tenete la bocca chiusa perché c’è di mezzo il padre del premier in carica”. In estate il governo adotta un decreto che impone l’obbligo di riferire ai superiori i contenuti delle informative di reato trasmesse all’autorità giudiziaria. “Il rischio di ingerenze politiche era altissimo”. Quando lei comunica a Sessa, via sms, che Marroni accusa Del Sette di avergli rivelato l’esistenza dell’indagine a Napoli, il vicecomandante replica: “Fichissimo”. “A mio giudizio, Del Sette andava intercettato. A settembre 2016 si tiene un incontro strano tra Marroni e Del Sette. Propongo a Sessa di fare un’ambientale ma lui mi risponde a distanza di ore, ormai era troppo tardi”. Secondo lei, chi ha spifferato per primo la notizia dell’inchiesta? “Maruccia è un vero carrierista. Io credo che, al rientro dalle ferie, abbia informato subito Del Sette. Alla fine di settembre Tiziano Renzi sapeva di essere intercettato”.

 

A proposito di spifferi, tra le singolari coincidenze comuni ai due fascicoli, Cpl Concordia e Consip, ci sono pure reiterate fughe di notizie a favore della stampa, con una predilezione per il Fatto quotidiano. “Me ne sono accorto, ma mi sembrano storie diverse. In Cpl Concordia tutto nasce dalle dichiarazioni del pentito Iovine. Quattro colleghi del Noe finiscono sotto indagine. Perché finisce sempre così, eppure teoricamente la responsabilità del fascicolo, omissis inclusi, è in capo al pm”. L’interrogatorio di Marroni, risalente al 20 dicembre 2016, viene squadernato sui giornali a distanza di due giorni. “Ricordo bene quella mattina. Io e Woodcock ci incrociamo in stazione, scambiamo qualche parola ma non commentiamo lo scoop del Fatto. Ricordo che il dottore ha un po’ di febbre e nella fretta sale sul treno sbagliato, diretto a Firenze”. E’ lei a informare il cronista del Fatto? “Se fossi stato io, avrei atteso che il fascicolo passasse prima a Roma e non avrei contattato il giornalista nel medesimo giorno dell’interrogatorio”. Woodcock e Federica Sciarelli sono stati indagati per questo episodio, infine archiviati. “Credo che un giornalista avveduto sia disposto a pubblicare una notizia così delicata solo se ha un rapporto fiduciario, radicato nel tempo, con la sua fonte. Io quel cronista neanche lo conoscevo”. Sempre lui pubblica la telefonata riservata tra Matteo Renzi e il padre risalente al 2 marzo 2017. Secondo lei la fonte è romana? “Direi di no”. Partenopea? “Direi di sì”. Lei, maggiore, ha combinato un gran casino. “Gliel’ho detto: non sono un bravo investigatore”. Dopo questa vicenda gli 007 li potrà vedere nei film. “Oggi non so più se m’interessa continuare a fare il carabiniere. Sono avvilito e confuso. Più fai il carabiniere, meno fai carriera. Se tu vedi, questi generali e generalissimi non hanno un comando di compagnia serio, hanno fatto Palermo centro, Roma centro, Viterbo”.

 

Può essere che a un certo punto lei si sia sentito investito di una missione non contro il crimine ma contro qualcuno? “Io non mi sono mai innamorato di un procedimento, neanche di quello contro Tiziano Renzi. Mi sono incazzato perché mettiamo un telefono sotto controllo e dopo 24 ore nessuno parla. Mettiamo le ambientali negli uffici di Romeo e dopo due settimane cominciano ad abbassare la voce, iniziano a scrivere pizzini, accendono il televisore, infine comprano il tritacarte. Allora ti fermi e pensi: sorella cara, mi state pigliando per il culo!”. Le fuoriuscite danneggiano le indagini e avvantaggiano gli indagati, ciò però non basta a trasformarli in colpevoli. “Con De Caprio e Woodcock ho seguito indagini ai massimi livelli. Ora non potrei più indagare su uno spaccetto o su un furtarello, mi annoierei a morte. Non mi dispiacerebbe andare via dall’Arma, reinventarmi altrove. Ma non so dove”. Ora che è rientrato in servizio al reparto comando della legione Campania, avrà più tempo libero rispetto alle full immersion con capitano Ultimo. “In effetti, sì. Tornerò a frequentare la palestra, andrò dal barbiere tutti i giorni. Per il resto, tiro avanti come posso. Mi dedico al giardinaggio, mi diletto in cucina, sono diventato sommelier”. Lei ha quattro figli a cui badare. “Il più grande ha ventitré anni, il più piccolo ne ha soltanto uno. Non è stato facile spiegare loro quel che è accaduto. In una parola, arranco. Il maggiore guadagnava da cameriere a San Francisco 4500 dollari al mese, vitto e alloggio inclusi. Ha mollato e si è voluto arruolare nell’esercito da soldato semplice, dice che vuole restare in Italia. Per fortuna porta il cognome della madre, così sta a posto”.

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