Gli angeli dei campioni del Giro d'Italia

Parte da Bologna il Giro 102. Com'è la vita del gregario in una grande corsa a tappe? La raccontano Valerio Agnoli, Alan Marangoni, Alessandro Vanotti e Marco Velo

Giovanni Battistuzzi

Nomi e cognomi che sono riempitivi da ordine d’arrivo, sagome da transito sotto i traguardi, eppure non figuranti, attori non protagonisti piuttosto. Sono gli aiutanti delle fiabe, alcuni magici, altri tragici, tutti animati da un altruismo e da una tenacia quasi sovrannaturale, perché naturale è la tendenza dell’atleta a primeggiare sugli altri, altra cosa è il concedersi completamente per favorire la gloria altrui. Sono l’altra faccia della luna, quella nascosta, l’altro lato della moneta, quello che sta a contatto con la mano in un testaocroce, sono l’altra sponda del mare, quella che sai che c’è ma non la si vede e quindi non la si ricorda. Eppure senza di loro, senza i gregari, nessun campione sarebbe così campione, il ciclismo sarebbe un’agonia, una corsa a eliminazione. Per tutti. Perché i gregari possono essere traino o rincorsa, a volte carne da cannone, spesso zattere a cui appigliarsi quando le cose non vanno come le si immaginava, in certi casi rampe di lancio, trampolino per evasioni dal gruppo, una scalinata verso la vittoria. 

 

A Bologna, oggi, prenderanno il via del Giro d’Italia 2019 mescolati ai capitani, uno dopo l’altro. Avranno un giorno di relativa calma, nessuna borraccia da portare, nessuna tirata da fare, nessun compagno da guidare, solo il vento che troveranno tutti in faccia, ma tutti allo stesso modo: la cronometro è la democrazia applicata al ciclismo, tutti partono uguali, qualcuno conquisterà il potere. Poi ci saranno altri ventidue giorni in giro per la penisola, giù a scendere verso San Giovanni Rotondo, su a salire verso le Alpi e le Dolomiti; altre venti tappe di corse e rincorse, di fatiche e lavoro, sperando in una maglia rosa a Verona – città dove il Giro si concluderà il 2 giugno – per il loro capitano, in qualche sprint vincente del proprio velocista. Magari, chissà, in un giorno di libertà, una fuga da portare all’arrivo, una vittoria che sa di miraggio. 

 

Nei 3.578,8 chilometri del serpentone della corsa rosa si alterneranno in testa al gruppo, guideranno rincorse, cercheranno di non perdersi su e giù dalle montagne, lungo le ascese che eleggeranno il migliore tra i loro capitani. Antoine Blondin, durante il Tour de France del 1970, auspicò una maglia speciale per celebrare il miglior gregario. Poi, incapace di trovare una soluzione al problema di come calcolarne la bravura – se tramite i punti, i chilometri in testa, il tempo – lasciò perdere: “Inutile infilarli in una classifica, ognuno di loro va ringraziato soltanto per esistere”. 

 

A risolvere i problemi dello scrittore e giornalista francese ci pensò l’anno dopo Gianni Rodari con una filastrocca, la “Filastrocca del gregario / corridore proletario, / che ai campioni di mestiere / deve far da cameriere, / e sul piatto, senza gloria, / serve loro la vittoria”. Un onore letterario non per tutti. Perché questo non è un mestiere per tutti: “Fare il gregario è un lavoro complesso, che quasi sempre va oltre il mero aiutare in gruppo un capitano”, dice al Foglio Marco Velo, tra il 1996 e il 2010 tre volte campione italiano a cronometro e spalla prima di Marco Pantani, poi apripista per le volate di Alessandro Petacchi. “Non è solo quello che tira, sta davanti, segue in tutto e per tutto il leader, o almeno sino a dove gli è possibile. È anche chi con lui condivide il prima e il dopo corsa, avventure e disavventure, gioie e momenti difficili, vittorie e sconfitte”. 

 


Foto tratta dal profilo Facebook di Fabiano Fontanelli (Marco Velo sta tirando il gruppo della maglia rosa, Marco Pantani)


  

Sono le stampelle in corsa, si trasformano in confessori e motivatori, in psicologi che vegliano sulle sorti, non solo ciclistiche, dei campioni. “Il gregario sposa una causa, quella del capitano e quindi è normale che molte volte si trasformi in supporto morale”, racconta Alessandro Vanotti, che è stato professionista dal 2003 al 2016 e ha offerto le sue fatiche a Ivan Basso, Fabio Aru e Vincenzo Nibali. “Bisogna essere forti mentalmente, si deve trasmettere serenità anche nei momenti difficili, nelle giornate no, che in una corsa di tre settimane possono capitare, e trovare e infondere quella positività che permette di superarle”. Le gambe devono essere pronte, il fisico allenato – “facevo dei lavori specifici in allenamento, carichi di lavoro per poter sopportare la fatica. Tante ore in bici, 8/9 almeno a uscita” –, ma il ciclismo è anche e soprattutto un mestiere di testa. “Quando parti per un grande giro, sai che hai davanti ventuno frazioni da correre, sai che devi esserci sempre quando ci sarà bisogno e proprio per questo sai che non puoi avere cedimenti. E più sei consapevole di questo, meno avrai difficoltà”.  

 


Un gregario fa anche il fotografo all'occorrenza. Nella foto Alessandro Vanotti con Vincenzo Nibali durante il Tour de France del 2014 (LaPresse)


   

Una predisposizione mentale e un’attenzione che “ti fa guardare non solo a cosa sta accadendo al tuo capitano, ma anche un chilometro avanti al gruppo”, spiega Valerio Agnoli, che da Bologna partirà per il suo nono Giro d’Italia con il numero 42, ancora una volta a servizio di Nibali, uno dei favoriti per la vittoria finale. “Noi gregari siamo uno strano tipo di guida, un po’ bodyguard un po’ indovini. Dobbiamo tentare di prevedere e prevenire ciò che può succedere, dobbiamo essere capaci di limare le ruote, avanzare o arretrare a seconda delle necessità per cercare di evitare il più possibile gli inconvenienti. E dobbiamo inoltre adattarci alle caratteristiche di chi ha i gradi di capitano. Non c’è solo un modo di correre, ogni campione ha il suo: con Ivan Basso lavoravo in una certa maniera, cercavo di avere accortezze maggiori, con Vincenzo Nibali invece posso permettermi anche di fare mosse un po’ più avventate, perché so che è più pronto agli imprevisti”. Insomma, “siamo un computer a pedali che elabora milioni di input e cerca di trovare la miglior soluzione per fare meno fatica e incappare in meno inconvenienti”. 

 


Foto tratta dal profilo Facebook di Valerio Agnoli


  

Pierre Chany nel 1962 aveva descritto i gregari come “il lato nobile del ciclismo, una tipologia di uomini che non chiede successi personali, ma offre soltanto abnegazione e sacrificio”. E questo aspetto è ancora attuale. “Il gregario è ancora oggi quel tipo di corridore che non solo porta borracce, sta al vento, si danna l’anima per i capitani, ma riesce a sacrificare tutto se stesso, pure i risultati personali che magari potrebbe cogliere cercando la fuga o andando all’attacco”, racconta Alan Marangoni, professionista dal 2009 al 2018 e cinque Giri, un Tour, una Vuelta portati a termine al servizio, tra gli altri, di Vincenzo Nibali, Elia Viviani, Ivan Basso e Ryder Hesjedal. Un ruolo che è però mutato negli anni, che è cambiato al modificarsi del ciclismo. Non più esploratori di strade polverose, rabdomanti in cerca d’acqua, assaltatori di bar al grido “paga Cougnet” o “paga Torriani”, i primi due patron del Giro (che lo hanno diretto dal 1909 – al 1948, il primo – al 1992). “Per molti anni gli uomini di classifica si appendevano ai gregari, quasi non pedalavano per salvare la gamba”, continua Marangoni. “È stato un modo di intendere la professione che ha unito l’epoca di Coppi e Bartali a quella di Moser. Quello era un super gregariato, ancor più duro di quello attuale, un modo di correre che non ti permetteva neppure di fare uno scatto: si era vincolati al sacrificio e basta. Ora spesso si cerca di avere in squadra gente che deve sì aiutare, ma a cui si chiede pure il risultato, perché altrimenti dopo qualche anno ti rimandano a casa, oppure devi reinventarti in formazioni più piccole”. 

 


Foto tratta dalla pagina Facebook di Alan Marangoni


 

I gregari sono quelli che trovi davanti al gruppo prima degli altri, quando il traguardo è distante cento e più chilometri, quelli che devi aspettare minuti all’arrivo. Hanno volti che non finiscono in copertina, ghigni buoni per ogni occasione, rughe che ricordano un ciclismo antico, che sa ancora arrossire, che ha sempre qualcosa da dire.  

  

Sono ombre, ma discrete. “Si impara a essere sempre presenti, anche se un po’ nascosti, magari di fianco o dietro al capitano, per non soffocarlo con la tua sagoma, non mettergli agitazione ulteriore”, ricorda Vanotti.  

 

Sono uguali e diversi, ognuno con una storia come tante eppure unica, ognuno con un compito e una missione. Ci sono i cacciatori di uomini in fuga e i bulldozer da spianata, gli apripista e gli alpinisti, i funamboli da recupero e i fachiri da rincorsa. In ogni caso è fatica, sudore, chilometri, e tanti, davanti al gruppo, aria presa in faccia per risparmiarla a velocisti e uomini di classifica, tasche piene di borracce, tanto lavoro sporco e magari nemmeno una coppa da esporre in bacheca. Ma tant’è, “non è un disonore. Anzi. È qualcosa che ti riempie il cuore, un atto di onestà verso se stessi e verso chi ti corre attorno”, spiega Velo. “È abbracciare una causa che è superiore al tuo interesse personale. Ci vuole umiltà per essere un corridore, ancor più per essere un gregario e tutto ciò te lo porti dentro per tutta l'esistenza, ti aiuta a dare il giusto peso alle cose”. È un insegnamento, una palestra di vita, “qualcosa che sono contento di insegnare ai miei figli”, racconta Agnoli. “Quando mi chiedono ‘papà perché aiuti zio Vincenzo a vincere e tu non vinci mai?’, gli rispondo che ‘papà è contento di aiutare zio Vincenzo a vincere’, che quello è il mio mestiere: aiutare ed essere felice delle vittorie altrui. E questo è il miglior esempio che puoi dare a un bambino, gli fai capire che non siamo niente senza gli altri”. 

 

E quando “vince un gregario”, scriveva Marco Pastonesi, “vincono tutti: vincono i capitani, che senza di loro morirebbero di solitudine, e vince soprattutto il ciclismo, che così adempie al suo ruolo di piccola enciclopedia della vita, di divina commedia umana”. Perché ogni tanto i gregari vincono. E magari non se la godono neppure. “Perché è qualcosa in più. Perché se vinci tu e il tuo capitano dietro perde minuti dai rivali, non c’è molto da essere felici”, dice Agnoli. E vincono magari all’ultima corsa di una carriera generosa e altruista, come successo a Marangoni: “Era la cosa di cui avevo bisogno, perché chiudere la carriera senza aver mai vinto neppure una corsa piccina, come è poi quella di Okinawa, mi avrebbe fatto salutare il ciclismo con l’amaro in bocca. La vittoria l’avevo sfiorata più volte: al Giro d’Italia a Forlì, al Giro di Croazia, dopo 150 chilometri, di fuga mi hanno ripreso a meno di 20 metri dall’arrivo. Avevo bisogno di una soddisfazione personale, per quanto piccola. È arrivata all’ultima corsa, forse è stato giusto così”. 

 

 

Forse pochi allori, ma molte medaglie al merito ciclistico. “Ricordo la tappa di Plan di Montecampione al Giro 1998. Si arrivava vicino a casa mia, ci tenevo a far bene, e quindi, una volta che Pantani è scattato per dare vita a quel duello incredibile con Tonkov, ho continuato a salire di buon passo, con la radio nelle cuffie per sapere cosa succedeva in testa”, ricorda Velo.

 

 

“E quando ho sentito che Marco era solo, ho accelerato l’andatura per arrivare il prima possibile da lui. Ho passato il traguardo che lui stava per salire le scale del palco per la premiazione. L’ho chiamato e fatto un cenno di vittoria con la mano, un ci vediamo dopo. Lui però era già corso verso di me, bloccò il cerimoniale per abbracciarmi, per festeggiare con me. Mi ha detto che un pezzo della maglia rosa che avrebbe vestito era merito mio: un gesto che non potrò mai dimenticare”.