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Il grande scandalo d'Israele dall'inizio della guerra

Giulio Meotti

Atene o Sparta? Tel Aviv vuole essere amato dall’occidente, ma allo stesso tempo temuto dai nemici. Due obiettivi, che per lo stato delle cose, sono sempre più lontani fra loro

Le armi sono visibili ovunque in Israele e i turisti, sorpresi dalla vista di ragazzi e ragazze armati sull’autobus o al bar, pensano che nella società israeliana ci sia un entusiasmo per le armi e un approccio liberale al loro acquisto. Ma gli israeliani non hanno il diritto legale di portare armi e non hanno secondi emendamenti contro la tirannia del governo come nella tradizione americana (Israele non ha neanche una costituzione). Negli Stati Uniti, secondo il Pew Research Center, il 32 per cento dei cittadini possiede armi da fuoco. In Israele, meno del due per cento. Ma questo prima del 7 ottobre.
 

Dopo gli attacchi di Hamas, più di 300 mila israeliani hanno richiesto di poter portare armi, il doppio del numero totale di persone che prima le possedevano. Nell’area di Tel Aviv, la più liberal del paese, il numero di richieste è aumentato dell’800 per cento. Il 6 ottobre, Israele era sull’orlo di una nuova èra. Non solo per essere il terzo paese più innovativo al mondo secondo il World Economic Forum e per numero di startup sull’intelligenza artificiale dopo Stati Uniti e Cina o per raccogliere venture capital pro capite a un ritmo trenta volte superiore all’Europa. Sembrava sul punto anche di un accordo di pace con l’Arabia Saudita e lo storico conflitto con i palestinesi, che ha scandito la sua esistenza per 75 anni, sembrava passato in secondo piano. Tutto è cambiato in un giorno.
 

Sei mesi dopo il pogrom che avrebbe dovuto procurargli la simpatia del mondo (o almeno dell’occidente), Israele è più vicino che mai a essere un paria globale. E ogni giorno che la guerra contro Hamas va avanti, sempre più alleati si trasformano in critici e sempre più critici in nemici.
 

Il suo accordo con l’Arabia Saudita è finito in frigorifero senza data di scongelamento prevista e il rabbino americano Abraham Cooper si è appena visto ordinare la rimozione della kippah quando è atterrato a Gedda per un incontro interreligioso. La questione palestinese è tornata al centro dell’attenzione internazionale, paradossalmente dopo il più grande massacro nella storia del terrorismo commesso proprio in suo nome. Israele è in aperta disputa con il suo principale alleato, gli Stati Uniti, e il suo spazio fisico è ridotto drasticamente dai pericoli ai confini nord e sud. “Per sei mesi, l’esercito israeliano ha vinto una battaglia dopo l’altra contro Hamas”, scrive il Wall Street Journal. “Ma Israele si trova di fronte alla prospettiva di perdere la guerra”.
 

In sei mesi, il mondo si è capovolto per la piccola nazione ebraica. “Israel alone”, recita la copertina dell’Economist con una bandiera israeliana sferzata da una tempesta di sabbia e che potrebbe volare via in qualsiasi momento. Anche se chi oggi parla della “solitudine d’Israele” vorrebbe vederlo ancora più solo, sanguinante e claudicante.
 

Il 7 ottobre, lo stato ebraico ha vissuto uno choc che non ha solo sconvolto il suo senso di sicurezza e la sua fiducia nell’esercito. Dopo l’invasione di Gaza, agli occhi di gran parte del mondo Israele è diventato l’aggressore e i suoi aggressori le vittime. I morti di Gaza hanno sepolto quelli dei kibbutz nella tomba della memoria collettiva manipolata dai media, dall’astuta al Jazeera alle conformiste emittenti occidentali. La star di “Harry Potter” Miriam Margolyes ha paragonato gli ebrei in Israele al nazismo: “Sembra che Hitler abbia vinto”, perché ha “cambiato” gli ebrei da compassionevoli in un “feroce stato nazionalista genocida” che uccide donne e bambini. Il chiacchiericcio malefico che ormai percorre come un brivido di piacere perverso nella coscienza occidentale.
 

I palestinesi non hanno ancora il loro stato, ma hanno già qualcosa di meglio: un impero che domina le diplomazie, le redazioni dei giornali, le organizzazioni non governative, l’Onu, i tribunali dell’Aia, le agende degli influencer, le televisioni. E persino dopo le rivelazioni sull’infiltrazione dell’Unrwa da parte di Hamas, i paesi occidentali stanno già tornando a rifinanziare massicciamente l’agenzia dell’Onu  screditata.
 

I leader di Hamas, istruiti in occidente, hanno misurato molto bene lo stato spirituale dell’occidente e inventato un modo atroce di condurre la guerra per paralizzarlo psichicamente. Hamas non può vincere la guerra contro Israele, ma può costringere Israele a combattere una guerra che costa molte vite civili e la perdita del suo credito morale. L’intellettuale palestinese Mahmoud Darwish ammise che gli arabi di Palestina hanno avuto la fortuna  di avere gli ebrei come avversari.
 

Che il bilancio delle vittime civili a Gaza sia di 32 mila dichiarate da Hamas o di 18 mila stimate dagli analisti israeliani sembra di secondaria importanza. Come non ha più importanza che Hamas abbia imposto una guerra urbana a Israele attraverso indicibili atti di brutalità contro i civili israeliani e incorporato terroristi negli ospedali, nelle scuole e in altre istituzioni per massimizzare le vittime tra i suoi stessi civili. Non importa neanche che la risposta di Israele abbia causato meno vittime civili nei combattimenti urbani rispetto a qualsiasi altra guerra simile.
 

L’isolamento che ne sta risultando potrebbe costituire una minaccia per il futuro d’Israele altrettanto grave dell’attacco di Hamas che ha ucciso 1.200 israeliani. “La longevità di Israele è in discussione per la prima volta dalla sua nascita”, dichiara al Wall Street Journal lo storico Benny Morris. La simpatia globale mostrata dopo il peggior attacco contro gli ebrei dall’Olocausto è crollata, sostituita da immagini proiettate in tutto il mondo da una Gaza in macerie e con le piazze piene contro Israele, come non abbiamo mai visto un solo giorno contro la Russia.
 

Praticamente tutte le cancellerie occidentali ora rimpallano la richiesta di cessate il fuoco, con paesi (dalla Spagna al Belgio) ormai ostili a Israele e ministri che ne chiedono l’embargo e l’arresto del premier, Benjamin Netanyahu. E l’uccisione accidentale di sette operatori umanitari ha causato un ripensamento da parte degli Stati Uniti del sostegno a Israele, con Joe Biden che ha persino lasciato intendere una sospensione degli aiuti militari e che per la prima volta ha lasciato passare una risoluzione contro Israele al Palazzo di vetro (fra il Partito democratico woke e il Partito repubblicano isolazionista dopo novembre non sarà facile per Israele). Lo stesso ha fatto David Cameron dall’Inghilterra, con Boris Johnson che parla di un “desiderio di morte della civiltà occidentale”. Secondo il Gallup, il sostegno a Israele negli Stati Uniti è sceso al 36 per cento a marzo dal 50 per cento di novembre. Solo il 33,6 per cento dei giovani evangelici (il gruppo religioso americano più schierato con Gerusalemme) sostiene Israele, rispetto al 67,9 per cento nel 2018.
 

I manifestanti filo palestinesi hanno affollato le capitali occidentali chiedendo la distruzione di Israele, con “Palestina libera dal fiume al mare” proiettata sul Big Ben. Un’ondata di antisemitismo ha scioccato non solo gli israeliani, ma gli ebrei di tutto il mondo. Dai porti di Anversa e Malmö ai bei quartieri di Londra e Berlino fino alle case popolari nelle banlieue parigine, nessun ebreo si sente più al sicuro. E contro Israele si è creata un’alleanza di estrema sinistra, antagonisti legati al “sud globale” (luliani con la kefiah e russofili di vario tipo), islamisti e cattolici pacifisti con rigurgiti biblici antiebraici (“Israele è il nuovo Erode”).
 

Per le chattering classes che spingono per l’isolamento di Israele, le risposte al dilemma sono chiare. Israele deve subito porre fine alla guerra contro Hamas, consentendo di farla franca a coloro che hanno portato a termine il più grande massacro di ebrei dalla Seconda guerra mondiale, fra stupri, torture e rapimenti. E credono che ciò debba essere seguito da una nuova spinta per la pace la creazione di uno stato palestinese a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme. Mentre c’era un ampio sostegno nello stato ebraico per gli accordi di Oslo del 1993 basati sulla formula “terra in cambio di pace”, oggi quel sostegno è sparito. E lo spargimento di sangue ebraico, come è accaduto tante volte, ha incitato ancora più odio contro gli ebrei. L’isolamento non è colpa di Israele, ma dell’antisemitismo. Ma come per gli stupri di Hamas, la colpa ricade sulla vittima.
 

Israele si trova allora di fronte al tragico dilemma di voler essere amato dall’occidente in quanto ne è “l’avanguardia in medio oriente” (Leo Strauss), ma ha anche bisogno di essere temuto dai suoi nemici per sopravvivere e avere un futuro. Saul Bellow, Nobel per la Letteratura, colse questa condizione quando lo definì “sia uno stato guarnigione che una società colta, spartana e ateniese, e non capisco come possono sopportarlo”. Il 7 ottobre ha fatto precipitare questa contraddizione.
 

Lo stato ebraico spicca ancora al quarto posto nella classifica mondiale dei paesi felici e, stando alla classifica dell’Economist, è la trentesima democrazia del mondo dopo Estonia, Malta e Stati Uniti, e seguita da Portogallo e Slovenia. Ma è come se fosse uno scandalo morale rispetto ai paesi con cui condivide le classifiche. Per questo lo storico militare Victor Davis Hanson invita Israele a scendere a patti con la propria estraneità: “Deve accettare di essere un avamposto occidentale in inferiorità numerica, simile a Bisanzio, in un oriente ostile circondato da un mare di nemici. Non può, come altre ricche democrazie occidentali, permettersi voli di fantasia ecumenica, utopica e pacifista. Come nella storia millenaria di Costantinopoli, la fiducia di Israele non ha fatto altro che instillare maggiore odio tra i vicini islamici per aver ottenuto risultati che rimarrebbero impossibili nei loro paesi finché non cercheranno cambiamenti in politica, economia, cultura e religione, programmi che per il prossimo futuro rimangono improbabili”.
 

In un territorio grande come la Puglia, gli israeliani hanno visto diminuire lo spazio a loro disposizione dopo il 7 ottobre. Centinaia di migliaia di sfollati israeliani sono stati evacuati dalle loro case. Una guerra con Hezbollah, molto più potente di Hamas, è più probabile ogni giorno che passa. E Israele si sta preparando alla resa dei conti con Teheran.
 

Dallo scoppio della guerra a Gaza, il senso di sicurezza dei residenti che vivono ai confini è stato gravemente scosso e si chiedono quanto tempo impiegherà il nemico a sfondare le loro recinzioni. Rafi Nagar del kibbutz Ashdot Yaakov, vicino al lago di Galilea, ha scritto su Facebook: “Aiuto! Commando giordani possono  attraversare il confine e massacrare nei  kibbutz e moshavim”. Stessa sensazione a Merom Golan, al confine siriano, fra le comunità al confine con l’Egitto, gli abitanti della Valle del Giordano e in comunità come Bat Hefer, a cento metri dalla barriera di sicurezza in Cisgiordania.
 

In tutto questo, Israele non ha raggiunto i due grandi obiettivi della guerra: riprendersi gli ostaggi rapiti e scacciare Hamas da Gaza, brandendo la testa di Yahya Sinwar. Metà del sistema di tunnel di Hamas è distrutto, 18 battaglioni di Hamas smantellati su 24, la maggior parte dei razzi distrutti e molti comandanti di Hamas uccisi. L’esercito ora ha libertà di azione nella maggior parte di Gaza. Ma se Israele ha subito la sua 600esima vittima militare in sei mesi, Hamas non mostra segni di resa ed è in grado di infiltrarsi subito nelle aree evacuate. Ha iniziato a riapparire a Gaza City, nel nord dell’enclave, e lo schema si sta ripetendo a Khan Younis. “Affinché un’insurrezione vinca, l’unica cosa di cui hanno bisogno è sopravvivere finché l’altra parte non sarà esausta e se ne andrà”, ha detto Ofer Fridman, ex ufficiale israeliano al King’s College di Londra. Semplicemente sopravvivendo alla più lunga guerra che Israele abbia combattuto dal 1948, Hamas ha già vinto a modo suo. E così facendo ha intaccato la deterrenza di Israele. “Finché non verranno sconfitti in modo definitivo, avranno la possibilità di sopravvivere a Gaza, vedono positivamente gli esiti della guerra e hanno una sorta di ottimismo”, dice Yossi Kuperwasser, ex capo della divisione di ricerca dell’intelligence militare israeliana. “Hanno pagato un prezzo molto alto, ma hanno anche ottenuto un risultato molto importante ai loro occhi il 7 ottobre. Nel complesso, vedono il bilancio come positivo perché c’è la possibilità che rimangano al potere e il sostegno popolare palestinese nei loro confronti è significativo”.
 

E una vittoria, seppur “percepita”, da Hamas significherebbe la normalizzazione di un governo terrorista come alternativa alla democrazia in medio oriente. E lascerebbe Israele vulnerabile a ulteriori incursioni da parte di gruppi terroristici confinanti.
 

Fra gli scrittori, l’unico nome di peso che si è schierato con Israele è quello del Nobel per la letteratura Elfriede Jelinek. E il paese che detiene l’uno per cento della popolazione e il due per cento della terra di tutto il medio oriente è assurto allo status globale di avatar dell’oppressione sostenuta dall’occidente imperialista nei campus universitari di Berkeley e Harvard fino alle township di Johannesburg. Il boicottaggio universitario di Israele, che in Italia esordì vent’anni fa con una manciata di professori della Ca’ Foscari di Venezia, oggi è un fuoco che brucia in tutti i rettorati e senati accademici del paese, da Torino a Bari.
 

“Abbiamo provato a perdere”, scrive questa settimana il romanziere inglese Howard Jacobson, e non ha funzionato. “Abbiamo provato a vincere” e non sta funzionando. “Non sono sicuro di cosa sia rimasto”.
 

Se lo stato ebraico prenderà Rafah per finirla con Hamas, rischierà di perdere l’America. E se non prenderà Rafah, rischierà di perdere il sud d’Israele. Ma come diceva David Ben Gurion, i suoi nemici possono anche perdere tutte le guerre; Israele neanche una, condannato a vincere o a scomparire. Nei giorni scorsi, il giornalista e intellettuale canadese che vive a Gerusalemme, il centrista Matti Friedman, ha deciso di fare quello che non avrebbe mai pensato possibile: comprare una Glock.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.