LO SPECIALE sulla guerra

L'autolesionismo di Putin è un bagno di realtà per l'occidente

Andrea Graziosi

Il presidente russo ha già portato il suo paese alla sconfitta, anche se fa e farà di tutto per mostrarsi vincente. Il peso delle elezioni americane e la responsabilità della Ue

A due anni dall’invasione russa ci sono delle certezze su cui ragionare. La prima è che Putin e la sua Mosca hanno subìto due sconfitte militari, quella davanti a Kyiv della primavera del ’22 e quella del gruppo Wagner, distrutto a Bakhmut l’anno successivo. Soprattutto Vladimir Putin ha subìto una sconfitta politica e ideale: scegliendo di combattere, gli ucraini hanno dimostrato di preferire l’Unione europea e la sua vita a un gruppo dirigente putiniano che si presenta come l’alfiere di un mondo russo autoritario e irrealisticamente “tradizionalista”, un mondo che, al di fuori delle luci delle capitali, offre ai suoi abitanti condizioni miserabili.


La seconda è che le difficoltà russe hanno avuto un picco nell’estate del 2023, con la rivolta e poi la morte di Prigozhin.

 

 

A esso è seguita una sconfitta ucraina causata dall’errore, retorico e pratico, di una “controffensiva” irrealistica perché dava per scontati fattori non controllati da Kyiv (come la continuità degli aiuti americani) e ignorava dati di fatto come la maggiore potenza e le maggiori risorse russe, incluso un arsenale nucleare che porta anche i governi più favorevoli a Kyiv a pesare bene le loro scelte. A fronte della crisi della Wagner e delle difficoltà di Putin, gli ucraini avrebbero potuto adottare la linea seguita dal generale russo Surovikin, costruendo forti linee a difesa dei territori riconquistati, dichiarando credibilmente di aver vinto una guerra che tutti pensavano avrebbero rapidamente perso, e chiedendo a Bruxelles e Washington le maggiori garanzie politiche, militari e economiche possibili a fronte di trattative per una fine delle ostilità che vogliono in molti e che non richiede la rinuncia formale ai territori occupati dall’aggressore. 

 


La terza certezza riguarda il fatto che questa guerra è prima di tutto un affare europeo e non solo perché europee sono l’Ucraina e gran parte di una Russia che Putin vorrebbe irrealisticamente asiatica. L’Unione europea, e l’Italia con lei, si gioca infatti con essa le sue caratteristiche, i suoi confini, la sua identità, e forse il suo futuro.

 

I prossimi mesi


Si è appena aperta una finestra temporale pericolosa e che potrebbe diventare ancor più tale. Il fattore decisivo, che ha già cominciato a influire sulla realtà, le aspettative e quindi i comportamenti di tutte le parti in gioco è naturalmente Donald Trump. Gli ostacoli agli aiuti americani hanno già pesato sulla situazione ucraina al fronte, Putin si sente già oggi più forte e una sconfitta decisiva di Nikki Haley alle primarie nella Carolina del sud aprirebbe le porte a una trionfale corsa di Trump alla nomination, aggravando le cose. 


Un Putin che è riuscito a rinsaldare il suo potere dopo l’affare Prigozhin anche ricorrendo ai metodi gangsteristici che da sempre affiancano la sua forte impostazione ideologica saprebbe di avere l’opportunità di sostenere di aver vinto, cosa di cui, malgrado le apparenze, ha estremo bisogno. Se infatti niente può assicuragli che Trump sarà il nuovo presidente, quella corsa trionfale peserà comunque a suo favore: Putin potrebbe così provare a occupare qualche nuovo territorio e dirsi disposto a trattare per chiudere, almeno provvisoriamente, un conflitto in condizioni a lui più favorevoli rispetto a pochi mesi fa. La sostanziale sconfitta della sua scelta ideologica e politica del febbraio 2022 resterebbe, ma sarebbe possibile nasconderla con una retorica in parte credibile, stabilizzando il controllo della situazione interna e mettendo in sicurezza i suoi ultimi anni al potere.


La sostanziale inferiorità della produzione bellica occidentale (quella europea è drammatica se è vero che, come dicono gli esperti, l’intera Unione produce molte meno munizioni della Corea del nord) è aggravata dal rallentamento degli aiuti americani. Il danno, già pesantissimo perché – come è successo a Avdiivka – rende difficile a truppe ucraine che possono sparare solo una frazione dei proiettili russi reggere la pressione nemica, potrebbe estendersi nei prossimi mesi alla copertura antiaerea, rendendo di nuovo operativa l’aviazione russa, con un ulteriore sbilanciamento delle forze. L’errore della controffensiva, e il suo fallimento, hanno inoltre prodotto nella dirigenza ucraina inevitabili tensioni.

 


Un’Unione europea prossima al voto e con una possibile presidenza Viktor Orbán alle porte è quindi chiamata nei prossimi mesi a giocare un ruolo decisivo, supplendo per quanto possibile (come ha cominciato a fare) alle difficoltà americane e sostenendo l’Ucraina economicamente, militarmente e politicamente, aiutandola a superare le difficoltà create dalle scelte dei mesi scorsi e da un Trump che minaccia tanto il futuro di Kyiv quanto quello di Bruxelles. La chiave resta però nelle mani degli ucraini, chiamati di nuovo a provare la loro volontà di esistere resistendo a una pressione russa che monterà sfruttando il momento favorevole.

 

Il danno 


La scelta compiuta da Putin nel 2022 ha già causato danni enormi, prima di tutto in termini di vite e sofferenze umane, di morti (che si contano in centinaia di migliaia), feriti e profughi. L’Ucraina ha visto i suoi soldati morire difendendo la volontà dei loro cari, i suoi abitanti bombardati e costretti a fuggire, i suoi centri abitati e la sua economia devastati, la sua popolazione, già colpita come tutta l’Europa dal declino demografico, sottoposta a uno shock terribile, intere regioni distrutte e/o occupate dagli invasori. La devastazione psicologica, oltre che fisica e materiale, è gigantesca, e tale potrebbe essere quella politica e culturale: è per questo interesse primario dell’Unione europea accogliere l’Ucraina nel suo seno e avvolgerla con le sue cure e il suo affetto, che potrebbero dare un contributo decisivo a una rinascita difficile, ma non impossibile. 


C’è poi il danno, ancora più terribile, ai territori occupati, in larga parte distrutti e spopolati, nonché regno di repressione, paura e sospetto (diversa è la sorte delle zone pro russe, comunque colpite). E’ improbabile che una Russia cui sarà difficile strapparli, anch’essa in grave crisi demografica e gravata da una nuova e pesante economica di guerra, possa assicurarne una ripresa sul breve-medio periodo, e questo malgrado le sue gigantesche risorse naturali. Rischiamo così di avere, in Europa, grandi regioni che resteranno depresse per anni, come lo sono state, dopo il 1945, quelle abbandonate dalle loro popolazioni, come i Sudeti.
Il danno è pesante pure per la Russia, con le sue famiglie orfane di figli e padri mandati a morire per le manie di un leader ideologico e violento, con la sua cultura di nuovo piombata nella paura e nell’isolamento, con la sua economia di nuovo chiusa e militarizzata. A coronare il tutto c’è già, e crescerà, l’impatto negativo della scelta di lasciare l’Europa nella illusione di assumere di nuovo, guardando a oriente, il ruolo di grande del mondo senza averne le necessarie dimensioni. Il fatto innegabile, che anche i paesi dell’Unione europea dovrebbero sempre ricordare, è che a relativa parità di livello tecnico-scientifico e industriale, la potenza dipende solo dalla dimensione demografica, e quella cinese, quella indiana, quella statunitense, e un domani quella nigeriana, sono – semplicemente – di un’altra scala, una scala cui potrebbe ambire solo l’Unione europea nel suo insieme. 


Credere che una Russia che l’Europa ammirava e rispettava per la sua cultura (una cultura frutto di un passato distrutto dall’esperienza sovietica) e per le sue dimensioni (essa ne era il paese più popoloso) possa ambire a un ruolo simile tra potenze che hanno dieci volte più abitanti di lei e non conoscono e amano la sua cultura è semplicemente cecità autolesionistica, che potrebbe portare Mosca – se la scelta non verrà abbandonata – a diventare un pupazzo nelle mani di giganti.  Putin ha quindi già condotto la Russia alla sconfitta, anche se potrebbe essergli possibile, finché resterà in vita, sostenere di aver vinto, una finzione che è il suo salvagente.


C’è infine il danno, anch’esso enorme, subìto dall’Unione europea, già amputata dalla Brexit e dichiarata oggi nemica da una Mosca che la insulta e la ripiomba in un mortifero conflitto tra stati. Certo, sul lungo periodo l’ingresso dell’Ucraina costituirà un grande arricchimento, ma oggi a prevalere sono piuttosto chiusura, impoverimento e militarizzazione. Da un altro punto di vista, tuttavia, Mosca costringe l’Unione europea a guardare in faccia una realtà che non era già più da tempo quella eccezionalmente favorevole del passato. Da questo punto di vista, la scelta autolesionista di Mosca è anche una forte e necessaria spinta a fare un bagno di realtà.

 

Sul futuro


Arriviamo così al futuro. Certo, le guerre si decidono sul campo di battaglia e nulla è scontato. Putin potrebbe perdere e cadere, e la realtà conoscere un’inattesa svolta positiva, così come Mosca potrebbe ottenere una vittoria che le permetterebbe di pretendere di aver vinto una guerra che ha perso comunque vadano le cose.


Più probabilmente, entrambe queste soluzioni estreme non si verificheranno e senza vinti o vincitori è difficile parlare di pace. Ma non bisogna rinunciare a farlo, sottolineando sempre che in assenza del consenso di entrambe le parti, la pace può realizzarsi solo nel rispetto del diritto internazionale e non accettando il risultato di un’aggressione: anche eventuali plebisciti che accertino la volontà delle popolazioni locali potrebbero tenersi solo dopo il ritiro degli occupanti e il ritorno dei profughi, e sotto il controllo di organizzazioni internazionali rispettate. E’ difficile che una Russia non sconfitta sul campo accetti queste condizioni, e quindi una soluzione armistiziale resta la più probabile. E’ un’ipotesi che Putin ha già ventilato, dimostrando di aver abbandonato l’illusione del febbraio ’22 di un’Ucraina velocemente e quasi integralmente unita alla Russia, quando ha parlato di un riconoscimento internazionale delle sue “conquiste”, senza abbandonare l’ambizione “più modesta” di poter occupare un domani anche Odessa e Kharkiv. 


Quale armistizio dunque? E’ evidente che il suo carattere, il suo essere più o meno favorevole a Kyiv o a Mosca, dipenderà dalla situazione sul campo, e quindi dalla resistenza ucraina, dalla capacità di Joe Biden di vincere l’opposizione trumpiana a sostenerla, dall’esito delle elezioni europee e soprattutto da quello delle presidenziali statunitensi. Sia una parte degli Stati Uniti, che include non pochi repubblicani, sia l’Unione europea sanno dov’è la loro convenienza. Noi europei, in particolare, dovremmo avere la consapevolezza che sono oggi in gioco i confini dell’Unione, vale a dire la capacità di questa di farsi stato, e che occorre far fare – in nuove e difficili condizioni – un salto di qualità alla costruzione statale europea in campo decisionale, militare, strategico e soprattutto di coscienza comune. E’ una sfida gigantesca che richiede visione e capacità politica. Speriamo per il nostro bene sia possibile trovarle per non condannare piccoli e medi stati abbandonati a se stessi all’irrilevanza, con tutte le sue conseguenze.

 

Lo speciale del Foglio a due anni dall'invasione russa