Successi e dinieghi

Il nord di Gaza è al centro della visita di Blinken e degli accordi sugli ostaggi

Micol Flammini

Washington sa chi prende le decisioni in Israele e non sono gli urlatori della maggioranza. Sa anche che, però, chi prende le decisioni non la pensa come gli Stati Uniti sul Libano

Antony Blinken ha incontrato il presidente israeliano Isaac Herzog  e il gabinetto di guerra con il primo ministro Benjamin Netanyahu. Le visite assidue e lunghe del segretario di stato in medio oriente sono un segnale non trascurabile di quanto gli Stati Uniti guardino con urgenza ai conflitti di Israele con i suoi vicini, alla necessità di costruire una nuova infrastruttura in medio oriente che sia garanzia di una sicurezza in grado di durare. Gli obiettivi di Israele e Stati Uniti coincidono, le divergenze però su come perseguirli non mancano. Blinken ha detto che il ricorso contro Israele all’Aia “distrae da importanti sforzi”, che l’accusa di genocidio a Israele è “infondata”, che il numero delle vittime a Gaza è “troppo alto” e che la realizzazione di uno stato  palestinese è  indispensabile per la sicurezza futura di Israele. Gerusalemme ha accettato che una delegazione dell’Onu entri nella parte settentrionale della Striscia per tracciare una mappa della situazione e valutare di cosa c’è bisogno prima che i civili possano tornare. Per l’esercito israeliano, Hamas non ha più il controllo del nord, ma il ritorno dei civili è tra le opzioni che Israele vuole proporre per avere in cambio la liberazione degli ostaggi. Sarà permesso il ritorno dei palestinesi nel nord, soltanto quando Hamas avrà rilasciato i centoventisei ostaggi israeliani.

 

I terroristi della Striscia hanno già dimostrato quanto poco tengano ai loro civili e la proposta potrebbe risultare poco interessante, visto che il loro leader, Yahya Sinwar, spinge per tenere gli ostaggi il più a lungo possibile, fino a un cessate il fuoco definitivo o fino al rilascio di tutti i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Sono due opzioni improbabili, Sinwar lo sa, ma l’improbabilità fa parte della sua strategia anche per allargare il conflitto alla Cisgiordania, far leva su risentimento e difficoltà economiche. Dal 7 ottobre, circa centomila palestinesi della Cisgiordania che lavoravano in Israele non sono più ammessi nel territorio dello stato ebraico per motivi di sicurezza: l’attacco di Hamas è  stato favorito  dai pendolari che dalla Striscia si recavano tutti i giorni a lavorare di là dal confine.  Secondo Axios, Netanyahu avrebbe chiesto agli Emirati  di finanziare questi lavoratori per alleviare le difficoltà economiche. Il premier israeliano avrebbe ottenuto un no molto deciso. Gli Stati Uniti stanno cercando di creare una coalizione per  sostenere il futuro sviluppo dei palestinesi, di questa coalizione  dovrebbero far parte anche alcuni paesi arabi. 

 

Quando Blinken va in Israele sceglie con chi parlare, sceglie con quale anima del governo avere a che fare, e nonostante sia stato accolto dall’invito del ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, a non usare la dolcezza con Hamas, ma “il bastone”, ha avuto dal governo la risposta che sperava riguardo al nord della Striscia: sa chi  prende le decisioni in Israele e non sono gli urlatori della maggioranza, per ora. Sa anche che, però, chi prende le decisioni non la pensa come gli Stati Uniti sul Libano. Oggi le sirene sono suonate spesso al confine nord di Israele e un drone avrebbe colpito una macchina a Khirbet Salem, nei pressi del funerale di Wissam al Tawil, il comandante delle unità Radwan di Hezbollah ucciso lunedì. Nella macchina viaggiava Ali Hussein Barji, comandante delle forze aeree delle milizie sciite, quindi responsabile degli attacchi contro Israele dal nord, per i quali ventotto villaggi al confine sono stati evacuati. Hezbollah ha diffuso l’immagine di Barji chiamandolo martire: è il centocinquantottesimo membro delle milizie sciite a essere ucciso dal 7 ottobre.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.