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dalla nostra inviata

Gli ostaggi e il conflitto interiore di ogni israeliano: liberarli sconfiggendo Hamas

Micol Flammini

Contro il gruppo terroristico la soluzione militare non basta: serve anche un piano politico. "Bisogna mettere le basi per un dopo Gaza", ci dice l'ex consigliere di Peres

Tel Aviv, dalla nostra inviata. Da venerdì scorso, i cittadini israeliani aspettano la sera per vedere le immagini della liberazione degli ostaggi. Attendono impotenti e agitati che Hamas restituisca le persone che ha rapito il 7 ottobre. Attendono di sapere come stanno questi israeliani che tornano a casa e spesso la trovano vuota. Nel vedere la liberazione, si prova sollievo, ogni volta, ma anche rabbia. Lo spettacolo serale che i terroristi mettono in piedi, facendo arrivare gli ostaggi all’appuntamento con la Croce rossa tra una folla che li riprende, che batte le mani, che li filma mentre scendono stravolti in pigiama, con il 7 ottobre addosso,  sono la prova del ricatto di Hamas, sicuro del fatto che finché continuerà a liberare i civili, Israele deve rimanere immobile e accettare che la tregua venga estesa. I terroristi hanno trasformato la liberazione degli ostaggi in uno show. Sanno che gli ostaggi racconteranno della prigionia, daranno dei dettagli importanti, ma quello che conta sono le immagini e vengono riprese e mostrate anche a uso di propaganda interna. Quella esterna conta meno in questo momento, la pressione internazionale attorno a Israele affinché accetti un cessate il fuoco non può far altro che aumentare e neppure la notizia della presunta morte di Kfir, il bambino di dieci mesi, e di Ariel, suo fratello di quattro anni, può cambiare le cose. 

Si aspettava il ritorno dei due fratellini rapiti assieme alla madre, ma un giorno dopo l’altro le aspettative sono state deluse, non sono mai tornati e oggi i miliziani hanno raccontato che sono morti durante un bombardamento israeliano. A Piazza degli ostaggi, tanti cartelli erano per loro, e tutte le speranze erano rivolte alla possibilità di una notizia falsa da parte del gruppo che già nei giorni scorsi ha dichiarato la morte di prigionieri poi rilasciati. 

Il lavoro per l’estensione della tregua va avanti, Israele non potrà far altro che accettare, ripetendo che però non sarà possibile fermare l’operazione a Gaza ancora a lungo: massimo domenica deve riprendere. Gli Stati Uniti che non hanno mai smesso di sostenere Israele pensano a un piano veloce e duraturo per trasformare il medio oriente, ma in questo momento ogni israeliano vive un conflitto tra interessi ed emozioni: le persone vogliono liberare gli ostaggi e sconfiggere Hamas. I due obiettivi dell’operazione contro i terroristi della Striscia sono in conflitto, ma c’è chi crede esista ancora il modo di tenerli insieme.

Nadav Tamir è un diplomatico israeliano, è stato consigliere di Shimon Peres, ha lavorato per la pace e collaborato con le amministrazioni americane. Durante le manifestazioni contro il governo per la riforma della Giustizia ha coordinato le proteste dei diplomatici, adesso trascorre le sue giornate dentro al quartier generale del movimento “Bring them home” che lavora per sostenere gli ostaggi e le loro famiglie. Secondo Tamir esiste una terza via ed è politica. “Credo che sia impossibile sconfiggere Hamas soltanto militarmente, non si può eliminare ogni uomo dell’organizzazione, bisogna accompagnare le capacità militari con un orizzonte politico, mettere le basi per un dopo Gaza, aumentare la pressione internazionale contro Hamas”, dice al Foglio. Indossa la maglietta che ormai chiunque qui in Israele ha nell’armadio, quella nera con la scritta “Bring them home”. Tamir ha fiducia negli Stati Uniti di Joe Biden e crede che non manchino in medio oriente gli attori con cui dialogare per pensare a un futuro per Gaza senza Hamas. “Gli Stati Uniti ci hanno dato un sostegno completo e io credo sia possibile collaborare con Egitto, Giordania, Arabia Saudita. Il punto non è essere o no a favore dell’operazione militare dentro Gaza, ma essere consapevoli che non è sufficiente. E’ questo che dicono gli Stati Uniti”. Il direttore della Cia William Burns ha trascorso molto tempo in Qatar con il capo del Mossad David Barnea, il segretario di stato Antony Blinken tornerà in Israele e il messaggio per Israele non è di resa, ma di cambiamento. “Si arriverà al punto in cui i combattimenti riprenderanno, ma probabilmente sarà una guerra diversa, meno intensa, più chirurgica e che faccia meno vittime civili. Nel frattempo, però, bisogna pensare al futuro ed è proprio quello che questo governo non può fare”. Secondo il diplomatico, oltre al fallimento militare e di intelligence, il problema è stato anche politico, un fallimento di visione. 

Israele, forse per la prima volta nella storia dei colloqui, negozia promettendo alla controparte di eliminarla, “serve a mettere pressione, a far accettare le condizioni. Israele sa che Hamas non può negoziare la sua morte”. Sa anche di trovarsi di fronte a un nemico completamente diverso, con il quale non si può scendere a patti e che non può essere riconosciuto. “Gli accordi si fanno tra nemici, ma questo è uno scenario completamente nuovo, che non è comparabile né ai colloqui con Arafat né con Abu Mazen, che pure erano molto diversi l’uno dall’altro. Il primo è cambiato con il tempo, il secondo invece non lottava per far scomparire Israele, ma per uno stato palestinese. Hamas invece vuole l’eliminazione dello stato ebraico. Non esiste una letteratura, per questo serve un approccio diverso”. La constatazione è fredda e razionale: nessuno vuole una pace con Hamas, e Hamas non accetterà mai l’esistenza di Israele. Tamir insiste: alle armi va unita la politica, ci vuole un piano. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.