L'alleato americano

Liberare ostaggi senza restare in ostaggio di Hamas. La missione di Burns& co. in Israele

Paola Peduzzi

È arrivato in Qatar il capo della Cia che ha un grande affiatamento con il capo del Mossad Barnea. L'allinemanto tra America e Israele è cruciale, ma sui prossimi passi ci sono delle incognite. Le pressioni su Biden, a destra e a sinistra

Il direttore della Cia, William Burns, è arrivato ieri in Qatar per negoziare un’espansione dell’accordo tra Israele e Hamas che prevede: la riconsegna da parte del gruppo terroristico palestinese degli ostaggi presi il 7 ottobre; la liberazione da parte di Israele dei palestinesi condannati che scontano le pene nelle carceri israeliane (in un rapporto più o meno: un ostaggio per tre detenuti); la tregua militare nella Striscia di Gaza. Secondo molte fonti  americane, l’Amministrazione Biden vuole prolungare la sospensione dei combattimenti per riportare in Israele più ostaggi possibili e per far entrare gli aiuti nella Striscia.

 E’ previsto l’arrivo in Israele anche del segretario di stato americano, Antony Blinken, per coordinare con il governo di Benjamin Netanyahu le prossime fasi, soprattutto per trovare il modo di soddisfare l’obiettivo primario della reazione militare al 7 ottobre – cioè sradicare Hamas – lasciando aperto il canale per la liberazione degli ostaggi e quello dell’assistenza umanitaria ai cittadini della Striscia di Gaza. Questo modo va ancora trovato.

In Qatar con Burns c’era anche il capo del Mossad, David Barnea: il loro coordinamento, iniziato fin da quando il presidente Joe Biden era andato in Israele poco dopo l’attentato del 7 ottobre e reso pubblico proprio a Doha il 9 novembre scorso, è efficace e affiatato. Quando è stata negoziata la tregua la settimana scorsa, molti giornalisti americani hanno raccontato come si è cementato il rapporto tra Burns e Barnea ma anche tra altri funzionari americani con le loro controparti israeliane: questo allineamento è cruciale per capire come è stata e come sarà questa guerra, con buona pace di chi dice che la chimica personale – e Benjamin Netanyahu nei suoi tanti anni al potere è riuscito ad alterarla grandemente questa chimica, in particolare con i presidenti democratici degli Stati Uniti – è indispensabile per la tenuta delle alleanze. Personalmente ci potrà anche essere stata della freddezza tra Biden e Netanyahu, ma quando c’è stato bisogno di difendere valori comuni non ha contato nulla.

Questo allineamento è anche abbastanza segreto e questo rende difficile capire i prossimi passi, anche se è plausibile immaginare che Washington voglia prolungare la tregua militare fino a che non ci saranno più ostaggi nelle mani di Hamas, cercando di dare nel frattempo sostegno ai civili palestinesi colpiti dalle bombe di Israele. Naturalmente questo non è un gioco a due, e molto dipende da Hamas, o meglio dai suoi rappresentanti, in particolare il Qatar, visto che nessuno – né Israele né gli Stati Uniti – ha contatti diretti con il gruppo terroristico palestinese. La presa di Doha su Hamas è un’altra incognita.

Joe Biden si trova in una posizione molto delicata. Se si guardano le tv conservatrici, in particolare Fox News, il presidente americano risulta come “un traditore di Israele”: politici e commentatori di area trumpiana sostengono che Biden sia più duro con Israele che con Hamas e queste dichiarazioni risuonano forti anche nel governo di Netanyahu che, in parte, si sente trattenuto dall’America nella sua volontà di sradicare Hamas ora che ce n’è l’opportunità visto che l’operazione a Gaza è avviata. Le pressioni dei conservatori americani sull’Amministrazione Biden non sono soltanto dichiarazioni: la prossima settimana è prevista la votazione al Congresso del pacchetto di aiuti militari da 105 miliardi per Israele, l’Ucraina e Taiwan, ma il suo passaggio è condizionato dal negoziato sulla sicurezza del confine sud dell’America che non c’entra nulla con le sfide internazionali di difesa ma che mostra la determinazione del Partito repubblicano a declassare l’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina a un conflitto di serie b.

Biden è sotto pressione anche da parte di un’ampia fetta del suo partito che lo accusa di essere troppo a favore di Israele e di non aver imposto alcun freno alle operazioni militari israeliane a Gaza: nel fine settimana del Ringraziamento, le proteste sono arrivate fin sotto casa di Biden a Nantucket. Tutte le ultime rilevazioni – a gennaio iniziano le primarie in vista delle presidenziali – mostrano un deterioramento del sostegno a Biden da parte degli elettori under 35 che indicano come unica ragione del loro disamore il sostegno del presidente a Israele.

Attorno a Biden sono tutti scontenti: i falchi in Israele che vedono la tregua come un impedimento al raggiungimento di un obiettivo esistenziale; i conservatori che attaccano; il proprio partito. L’ex ambasciatore israeliano in America, Michael Oren, dice che Biden sa bene che si sta giocando la sua rielezione, ma per la difesa di Israele è disposto a farlo.
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi