Un'analisi di Julia Ioffe

Le linee rosse di Biden e Putin. Così Washington ha ridimensionato la minaccia nucleare di Mosca

Priscilla Ruggiero

Il "rischio di escalation", fino a pochi mesi fa il mantra della Casa Bianca sia come espressione di paura reale sia come motivazione per calibrare il sostegno all'Ucraina, si è notevolmente abbassato. Gli attacchi di Kyiv e il fattore Xi

Sin dai primi giorni dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, la strategia dell’Amministrazione Biden è stata quella di impedire a Vladimir Putin di fare qualcosa di drastico, come attaccare un paese  della Nato o ricorrere all’arma nucleare. Oggi, dopo i numerosi tentativi dell’esercito di Kyiv di riportare la guerra in Russia, questo rischio, dicono i funzionari americani, si è notevolmente ridotto. Julia  Ioffe, giornalista americana nata in Russia, nell’ultimo numero della newsletter  “The Best & The Brightest” ripercorre gli ultimi mesi di guerra che hanno portato alla trasformazione delle “linee rosse di Putin e Biden”. Se fino a poco tempo fa la “minaccia di escalation” era diventata “un mantra a Washington, sia come espressione di una paura reale che come una motivazione per temperare e calibrare il sostegno militare all’Ucraina”, oggi “c’è un chiaro consenso sul fatto che la Casa Bianca consideri il rischio di un attacco nucleare da parte di Putin più basso, incoraggiando i funzionari americani ad approvare tacitamente tattiche ucraine che un tempo temevano avrebbero scatenato una reazione contro la Nato, o peggio”, scrive Ioffe.

 

Puntare alla Crimea e colpire al cuore della Russia erano per gli Stati Uniti entrambe cose da escludere, eppure secondo alcuni funzionari dell’Amministrazione americana sentiti dalla giornalista,   né i ripetuti attacchi con i droni su Mosca né i continui colpi ai ponti russi che conducono alla Crimea hanno causato particolari allarmi. Non è esattamente un’approvazione, ma non è nemmeno un rimprovero: “Siamo stati molto chiari sul fatto che non è una cosa che incoraggiamo”, ha detto un funzionario di stato alla giornalista, e questo è il motivo per cui i sistemi a lungo raggio forniti dagli Stati Uniti a Kyiv “non hanno la portata necessaria per arrivare in Russia”, e i droni diretti a Mosca sono di fabbricazione ucraina. Secondo Ioffe “è una linea sottile che la Casa Bianca ha imparato a percorrere, ricalibrando costantemente i propri passi: lasciare che gli ucraini  combattano nel modo più opportuno, cercando di assicurarsi di non inciampare in un armageddon nucleare”. 

 

La nuova posizione “più rilassata“ dell’Amministrazione non è un segreto, scrive Julia Ioffe – il mese scorso in occasione dell’Aspen security forum il columnist del Financial Times Edward Luce ha detto a Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, in merito alle concessioni di qualsiasi sistema di arma richiesto dagli ucraini: “Chiunque abbia tracciato le linee rosse di Putin sta chiaramente esaurendo l’inchiostro, perché quella linea continua ad arretrare”. Sullivan ha risposto che gli Stati Uniti hanno fornito aiuti militari molto sofisticati, ma, proprio come ogni membro della Nato, hanno il dovere di valutare una serie di rischi quando misurano il proprio sostegno all’Ucraina.  Il capo della Cia Bill Burns, dopo le ripetute minacce nucleari da parte di Putin, ha riferito al capo delle spie russe Sergei Naryshkin che le conseguenze di un simile passo sarebbero state catastrofiche. Poi, a novembre, il leader cinese e alleato di Mosca Xi Jinping ha affermato di essere contrario “alla minaccia o all’utilizzo di armi nucleari”. “Tutte le linee rosse che l’Amministrazione Biden pensava avesse Putin, sembravano dissolversi a ogni passo compiuto dalla Casa Bianca. E poi  l’ammutinamento di Evgeni Prigozhin ha convinto  tutti sul fatto che Putin sia molto debole, se non addirittura ferito a morte”, scrive Ioffe. 

 

 C’è quindi, secondo Ioffe, ormai “un chiaro consenso sul fatto che la Casa Bianca consideri la minaccia nucleare di Putin notevolmente più bassa, ma non c’è accordo sul perché”: Angela Stent, esperta di Russia  che ha lavorato nell’intelligence durante l’Amministrazione Bush, dice che “il fatto che Pechino abbia dichiarato che è inaccettabile parlare dell’uso di  armi nucleari, e che lo abbia detto anche l’India, è importante. E poi la Cina si è presentata a Gedda. E’ stato un segnale per  Mosca che la Cina ha i propri interessi e non vede di buon occhio l’utilizzo di armi nucleari”.  Washington, dice Ioffe, vuole prendersi i meriti del fatto che “l’allarme nucleare non abbia suonato”, mentre alcuni si concentrano sul fattore Xi Jinping.  Frank Gavin, studioso di proliferazione nucleare al Sais, ha detto alla giornalista americana: “Se mi chiedesse, con una pistola puntata alla tempia, quale sia stato il fattore più importante, direi l’intervento di Xi. Ma nella città in cui viviamo io e lei, nessuno vuole ammetterlo”.