L'intervista

Margaret Hoover cerca un conservatore normale su Firing Line

Matteo Muzio

La conduttrice del programma in onda sulla Pbs va a caccia di idee e politici che vadano oltre il trumpismo e il desantismo. Ci racconta il suo metodo, la sua candidata ideale e come si fa un’opposizione che funzioni

Una delle domande che ricorre spesso tra chi si occupa del dibattito culturale americano è: che fine hanno fatto i conservatori? Non i conservatori seguaci di Donald Trump, che rimangono ancora numerosi dentro il Partito repubblicano e sulle frequenze di Fox News, né i più articolati sostenitori delle “culture wars” lanciate dal governatore della Florida Ron DeSantis, fautori di un’ideologia che ricorda più da vicino il nazional-conservatorismo europeo o, al limite, il “risentimento bianco” di cui si fece campione a cavallo tra anni ’60 e ’70 il governatore dell’Alabama George Wallace, democratico e segregazionista. Per conservatori si intende qui la linea di pensiero nata nei tardi anni ’50 dell’Ottocento che con le parole d’ordine “lavoro libero, terra libera, uomini liberi” ha contribuito a lanciare il moderno Partito repubblicano. In altre parole: dove sono finiti i sostenitori del fisco leggero e dell’ampia libertà delle persone e delle imprese? Sono rimasti in pochi, alcuni sono passati a sostenere i democratici: è il caso dell’ex governatore dell’Ohio John Kasich o di Cindy McCain, vedova del senatore dell’Arizona John McCain. Ma c’è una persona che da anni cerca di salvare ciò che resta di questa nobile tradizione politica che, oltre ad aver dato all’America grandi presidenti come Theodore Roosevelt, Dwight Eisenhower e Ronald Reagan, ha contribuito in modo significativo a forgiare lo spirito americano sublimato nel concetto del “self made man” così come lo conosciamo oggi. 

 

Margaret Hoover, classe 1977, non è né una politica (anche se ha lavorato per la Casa Bianca durante la presidenza di George W. Bush) né un’accademica, nonostante la sua formazione eterodossa (ha studiato il cinese mandarino e lo spagnolo, ha lavorato in Bolivia, Messico e Cina). Ha scelto un percorso simile a quello del suo avo più famoso, il bisnonno Herbert, presidente  degli Stati Uniti durante i primi anni successivi alla Grande Depressione e incolpato di aver aggravato la crisi economica. Margaret Hoover, che serve anche nel board della biblioteca presidenziale di Hoover, ha in parte contribuito a una rivalutazione critica dell’operato del presidente: da segretario al Commercio dell’Amministrazione Coolidge, “Hoover mise in guardia dalla speculazione di Wall Street. E tentò disperatamente di convincere imprenditori e lavoratori di lavorare insieme per evitare il peggio”. Oggi Margaret Hoover conduce una volta a settimana Firing Line, un programma televisivo sulla Pbs di interviste faccia a faccia sul modello dello storico programma nato da un’idea di William Buckley, fondatore della National Review, una delle riviste che hanno forgiato il conservatorismo moderno. Questo è uno dei pochi programmi televisivi dove possono emergere le idee del conservatorismo tradizionale della nuova generazione, rappresentata da esponenti come Mike Gallagher, capo della commissione congressuale di Controllo sulle attività del Partito comunista cinese. La Hoover vorrebbe favorire un’evoluzione del conservatorismo che lo renda aggiornato alla contemporaneità e che nel contempo si liberi dall’abbraccio mortale costituito dal trumpismo.

 

Al Foglio spiega che in realtà questo abbraccio non è così stretto come si pensa: “Ricordiamo bene che Donald Trump nel 2016 non ha mai conquistato la maggioranza assoluta degli elettori repubblicani, ma soltanto quella relativa, e ha conquistato la nomination grazie a al sistema che fornisce al vincitore del voto delle primarie tutti i delegati alla convention”. La situazione, a suo avviso, è ancora così, anche se, ammette “al momento non c’è ancora un candidato in grado di battere Trump per le primarie del 2024”. In quel caso però ammette che c’è un problema strutturale a favorirne la riconferma: “Il sistema di voto, così come nel 2016, favorisce la partecipazione dei sostenitori più accesi: in alcuni stati le primarie sono chiuse ai non iscritti e questo favorisce la sua candidatura estremista”. Non è un caso, secondo la Hoover, che due delle senatrici più moderate, Susan Collins del Maine e Lisa Murkowski dell’Alaska, siano state scelte col sistema del “voto alternativo”, che consente all’elettore di ordinare la sua preferenza in modo diverso: “In questo modo si favorisce la partecipazione dell’elettorato generale, che può votare anche per i repubblicani moderati”. Sui quali però c’è un mito da sfatare: “Non è affatto vero che le posizioni dei repubblicani e degli evangelici conservatori bianchi siano sovrapponibili. Dobbiamo ricordare che se in America nel 2023 il matrimonio omosessuale è protetto, non lo dobbiamo più a una sentenza della Corte Suprema, ma a una legge, il Respect for Marriage Act, votato anche da undici senatori repubblicani, che si sono allineati a un cambiamento degli elettori”. Ai repubblicani però, manca la conquista dell’elettorato più giovane ed è un problema che Hoover si pone già da molti anni, ben prima dell’opa ostile lanciata da Donald Trump nel 2015. Il suo saggio American Individualism, pubblicato nel 2011, chiedeva che entrasse in gioco una nuova generazione di leader per salvare il conservatorismo. Oggi dice che “quel saggio è stato superato in larga parte dagli eventi successivi. Credo però che ancora molto debba essere fatto, a cominciare dalla questione riguardante il cambiamento climatico, che resta un problema reale e con cui bisogna fare i conti. Serve una politica repubblicana su questo che superi le politiche di sinistra e radicali e fornisca soluzioni alternative”. 

 

Un’altra mancanza che rileva Hoover è quella delle critiche efficaci alle politiche dell’Amministrazione di Joe Biden, che ritiene spesso “lontane dal comune sentire dell’opinione pubblica e dal buonsenso”. Il colpevole, nemmeno a dirlo, è “l’imbarbarimento causato dagli anni trumpiani, che hanno portato a un dibattito fatto di toni polarizzanti e incendiari e dall’uso costante e sconsiderato della macchina del fango”. Però per la Hoover,  qualcuno in fin dei conti c’è: “Il modello a cui mi riferisco è quello della pagina delle opinioni del Wall Street Journal, dove le politiche radicali dell’attuale presidenza vengono smontate con competenza e attenzione ai fatti. Ci sono però anche due candidati alle primarie presidenziali repubblicane che esprimono questi concetti in modo attento, e mi riferisco all’ex governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson e all’ex ambasciatrice presso le Nazioni Unite Nikki Haley”. Proprio Haley, secondo lei, potrebbe essere una candidata solida ed efficace contro gli argomenti e le bassezze trumpiane. Se il bisnonno Herbert Hoover, nato da una povera famiglia quacchera dell’Iowa, diventato prima un ingegnere minerario con laurea a Stanford, poi un manager miliardario,  uno dei più grandi segretari al Commercio della storia americana e infine presidente degli Stati Uniti, ha incarnato la validità del sogno americano nella prima metà del Novecento, oggi Nikki Haley rappresenta un esempio analogo: “Il suo esempio di figlia di immigrati indiani che sa farsi strada nella società mostra che il modello dell’american dream funziona ancora e che le persone possono ancora raggiungere i loro obiettivi con le loro forze”, dice la Hoover.   Sullo sfondo però resta ancora un Partito repubblicano dove, se per i sondaggi più recenti, come quello di Pew Research Center di marzo, il 65 per cento degli elettori si dichiara contrario a qualsiasi tipo di discriminazione razziale e sessuale, c’è una minoranza organizzata che invece sostiene “Trump a prescindere”. Ed è questo il grande scoglio che dovranno superare i repubblicani per evitare che in futuro non siano più il partito del “free business” ma quello del “risentimento razziale” che Trump ha saputo cavalcare nel 2016, facendosi digerire da un elettorato repubblicano che non ha saputo unire le sue forze contro la sua conquista distruttrice.