(Foto di Ansa) 

Piccola posta - reportage dal'Ucraina

I leoni di Odessa

Adriano Sofri

Un giorno con Anna Golubvskaya, tra il cimitero ebraico e le sue foto che proteggono dalla disperazione della guerra

Odessa, dal nostro inviato. Anna Golubovskaya è di Odessa, è fotografa, sta per venire a Milano per una sua mostra e ha una faccia gentile e risoluta, che fa desiderare di averla amica. Dice che la città nella guerra cambia faccia, e anche le facce delle persone cambiano. O sono proprio altre, facce di persone arrivate in città da Mariupol, da Kherson, da Mykolaiv… E anche le facce degli animali. Dunque sono soprattutto affare di fotografi, e non tanto di fotografi di guerra, ma di una fotografa di pace in tempo di guerra, per dire così. Una delle sue ultime foto ritrae un leone offeso, amareggiato – proprio così – che a prima vista si direbbe vecchio ma non lo è, è sfollato, dallo zoo di Kharkiv a quello di Odessa, per salvargli la vita e sottrarlo alla paura. Anche a Mykolaiv c’è uno zoo dalla storia illustre, il più grande, fondato nel 1901. 


Restò aperto nella Seconda guerra ed è riuscito ad aprire, nei fine settimana, anche in questi mesi. Ha un motto: “Solo col nostro impegno comune sapremo salvare la vita degli animali selvatici”. Non sappiamo salvare nemmeno le vite degli animali umani. Mykolaiv, sapete, è la città fluviale che ha fatto da argine all’avanzata russa verso Odessa, e che viene ogni giorno bombardata, benché sul suo fronte, a est verso Kherson, gli ucraini stiano recuperando terreno. Secondo un attendibile calcolo di pochi anni fa, c’erano in Ucraina 750 mila cani e 5,5 milioni di gatti. Ne abbiamo visti portati via in braccio o al guinzaglio da famiglie che scappavano senza sapere dove. Non abbiamo visto gli altri, milioni di umani, milioni di altri animali. 
Odessa fa ancora eccezione, di fronte alla orrenda devastazione dell’est. L’altro giorno a teatro erano già spente le luci per il “Nabucco” e la sirena antiaerea ha fatto andare il pubblico, svogliatissimo, nel sotterraneo e nel corridoio dei cantanti, sicché uscivano dai camerini il baritono tutto inabuccato a dare un’occhiata o Abigaille a chiedere quando si sarebbe ricominciato – di lì a dieci minuti, del resto. Ieri sera, a mezz’ora dal coprifuoco, un complesso da marciapiede stile Goran Bregovic faceva ballare ragazze e ragazzi di fronte al giardino di città. 


“Odessa non è – finora – in piena guerra, ma ha perduto la sua stabilità. Le è mancato il terreno sotto i piedi. Il mare, sotto i piedi”. Anna ha fotografato il Mar Nero desolato percorso da un misterioso cigno reale. Sulla spiaggia di Langeron, dice, vietata agli umani, “adesso ci sono piante che sbucano dalla sabbia”. 

 

Anna ha una cagnolina lussuosa, una shih tzu nera, che le arrivò minuscola come un topolino e già dotata di un nome solenne: Afina, Athena. Ha un successo strepitoso fra i passanti. La conversazione fra me e Anna è decisamente intuitiva, non abbiamo una lingua nemmeno rudimentalmente comune. Però lei ha le sue fotografie, e io posso fare le facce. Le sfogliamo e mi chiede: “Senti il respiro della guerra in queste fotografie?” (Sì, penso, ma non troppo, per fortuna). Per di più, ho avuto modo di conoscerla prima di venire a Odessa. Le madri di Anna e di Eugenio Alberti Schatz, milanese per metà, scrittore critico e artista, erano russe e compagne di scuola a Odessa, lui e lei si erano frequentati da bambini, nelle vacanze, e si sono reincontrati con la guerra, in uno scambio di pensieri e immagini ospitato ogni settimana dalla rivista Doppiozero, “Qui Odessa”. Lei in corsivo, lui in tondo. 

 

Tanta parte delle comunicazioni fra le persone avviene senza una lingua comune, specialmente quando la vita quotidiana si interrompe, come nelle guerre – o in certe vacanze. E potrò sempre pescare nel dialogo fra Anna ed Eugenio. Anna scrive, per esempio: "Quando è iniziata la guerra, uno degli indicatori di umanizzazione è stato che hanno permesso alle persone di lasciare il paese portandosi dietro gli animali domestici, anche se privi di documenti. In caso contrario, molti avrebbero scelto di restare pur di non abbandonare gli animali cari.

 

Oggi osserviamo con orrore andare a fuoco per mano degli occupanti stalle con cavalli e mucche, e soffrire gli animali sotto le bombe. Lo zoo di Nikolaevsk è un inferno, a marzo è bruciato lo zoo di Kharkov. Il suo proprietario, Aleksandr Fel’dman, ha quasi perso il senno nei tentativi di spiegare agli invasori che gli animali restano sordi per le esplosioni, si riempiono di schegge, muoiono per l’onda d’urto e di fame. Dava interviste da casa, e come in un’arca di Noè, intorno a lui nella stanza c’erano caprioli, procioni, scimmie… I militari ucraini sono riusciti a portare via un po’ di animali sotto il fuoco dei nemici. A Odessa è arrivata una coppia di leoni bianchi. Il direttore dello zoo, Igor Beljakov, mi ha dato il permesso di fotografarli, in una voliera. Un gigantesco leone bianco, macilento, con uno sguardo umano. Le piaghe per la gabbia troppo stretta, le ferite per le schegge, le costole a vista. E’ così che è ritratto nelle mie foto – il re degli animali in esilio. Ma questo succedeva in aprile. A fine giugno sono ritornati ad avere il loro aspetto regale. Stanno bene a Odessa."

 

Siamo andati a visitare il grande cimitero ebraico. Il Terzo cimitero – i primi due furono devastati, saccheggiati, profanati – con il Memoriale ricostruito, soli visitatori in un meriggio folgorante, il famoso sole di Odessa. La Moldavanka di Babel’ – “certo che ci sono ancora i ladri e i furfanti”. Nel pomeriggio, Anna mi introduce nella cerchia dei suoi amici sulle panchine della Alexandrovskiy: ebrei laici, sopra la settantina, bevono un caffè o un cappuccino, litigano spettacolosamente. Michail Poizner, “nato a Odessa nel 1949, ingegnere marittimo, professore, esperto di porti, Lavoratore Onorario dei trasporti dell’Ucraina, autore di opere scientifiche, storiche, narrative”. Mi regala due bellissimi volumi illustrati di storia ebraica, a sua cura: immagini inedite del 1941-44, e raccolte di foto e cartoline di Europa e Palestina, della sua personale collezione. Si accalora soprattutto con Juriy Davidoff, collega di lavoro, su quello che si dovrebbe fare e non si fa per i porti e il resto: hanno l’aria di fare così tutti i giorni, per amicizia. Un terzo, più anziano, quasi come me, forse, è Leonid Suckach, è più silenzioso, ascolta le notizie alla sua radiolina, ha sempre delle caramelle alla frutta in tasca e me ne regala ogni giorno una dopo avermi stretto la mano (a Odessa ci si dà continuamente ed energicamente la mano): oggi ha la vista debole, ma è stato olimpionico di una qualche ginnastica acrobatica. Michail non fa che fissarmi incontri interviste e sopralluoghi, e intanto chiama la sua nipotina a Gerusalemme. Anna, che è di almeno una generazione più giovane, è la loro beniamina. Era ebreo il suo nonno paterno. Suo padre, col quale vive, è un giornalista e protagonista della vita artistica di Odessa, sua madre insegnava storia dell’arte e non c’è più. Anna ha una figlia grande in Germania, a sedici anni andò a studiare a Varsavia e “piangeva, piangeva: il primo anno, il secondo anno… Le mancava Odessa, la sua aria aperta”.

 

Anna è stata marionettista, architetta, pittrice, illustratrice di libri, è lettrice di russo – la sua lingua – e insegnante di storia dell’arte, ha pubblicato libri sui fotografi dell’Ottocento a Odessa. E poi, vent’anni fa, “ho cominciato a vedere le cose a modo mio, e a fotografare. In bianco e nero, dall’inizio, e con le vecchie macchine”. Il digitale, dice, è troppo intelligente per lei, e fa tutto da sé. A lei piacciono le cose difficili. Video no, non ne ha mai fatti. “Mi piace fotografare, è l’altra mia lingua”. Le foto le ha stampate per la mostra un provetto amico, Andrej, a Kharkiv, sulla carta fotografica procurata in Germania dalla figlia di Anna, Sonia, e spedita via Bucarest – l’ultimo tratto grazie alle poste ucraine, che funzionano. In questi mesi Anna ha aiutato due sorelle che hanno un forno del pane, e ha imparato il vero “mestiere femminile più antico della civiltà”. Soprattutto ha avuto il permesso di frequentare un reparto di maternità e fotografarlo. 
“Come tutte le madri, l’avevo visto solo dal di dentro, dal punto di vista del mio parto. Ho scoperto che tutti i bambini nascono diversi. Con personalità diverse, sin dal primo istante. E’ un mistero a cui non riesco ad abituarmi. Vengono alla luce due gemelli, uno grida, e l’altro emette dei suoni riflessivi e si gratta la punta del naso, sembra totalmente consapevole di quello che sta facendo… La morte di una bimba di tre mesi e della sua mamma non mi fa respirare. Questa serie di fotografie è scaturita per mettersi di traverso alla guerra e alla morte. E continuerà, fino a che riuscirò a scattare immagini. Tutte le persone, me compresa, cercano un appoggio nella vita." 

 

Ieri notte, per far bene le cose, Anna G. mi ha scritto una lettera, l’ha affidata al traduttore automatico, e me l’ha mandata. Dice: “Sono nata a Odessa e anche i miei genitori. I miei nonni erano venuti in gioventù per studiare in una grande città. I miei genitori hanno vissuto insieme quasi 60 anni. Appassionati bibliofili, mio padre è un collezionista di quadri e libri di poesia del primo Novecento. Il nonno ha combattuto nella guerra. Tutta la famiglia trattava il governo sovietico senza dogmi, anzi con ironia. I genitori si attenevano a una specie di calma opposizione. Per questo, fin dall’infanzia, ho distinto le conversazioni ‘in cucina’ a casa dalla comunicazione in società.
Ho avuto una galleria d’arte per molti anni. Poco redditizia. Ho pubblicato libri, per guadagnare soldi. Ne curavo io la grafica. Una volta ho cercato di spiegare a un fotografo qual è l’atmosfera delle dacie di Odessa. Non capiva che cosa stessi aspettando. Sono cresciuta nel villaggio e volevo fotografare un orto, del mais, un pagliaio. La dacia di Odessa: un giardino trascurato, vecchi alberi, un tavolo per una grande compagnia. Durante il giorno ci giocano a ping-pong, la sera lo coprono per lunghe conversazioni. Mi sono resa conto che non riuscivo a spiegarlo a parole. E ho deciso di mostrarlo visivamente. Così mi sono lasciata trasportare.
A marzo abbiamo iniziato il progetto comune, Eugenio e io. La guerra ha ravvicinato le nostre prospettive. Oggi la città è tranquilla, ma ogni giorno la situazione può cambiare tragicamente. Noi ci siamo mossi senza un piano, solo in base alle sensazioni.
Leggo le notizie con orrore. Come a ogni persona, il cuore fa male: la gente muore, la gente soffre. Bambini, anziani, persone pacifiche. E’ impensabile che nel XXI secolo la Russia abbia fatto precipitare il nostro paese in un cattivo medioevo. Una volta, da bambina, leggendo romanzi storici, ho pensato: Vorrei vedere quell’epoca, almeno con un occhio! Non immaginavo che un sogno d’infanzia si sarebbe avverato in modo così terribile.


Ho molta paura che questo dolore si indurisca. Voglio che l’anima rimanga viva, con simpatia, con compassione. Che le mie fotografie non aggravino la situazione, ma al contrario mostrino quanto sia fragile il mondo, quanto sia importante la vita di ogni persona. Che volti gentili hanno le persone che incontro per strada, i volontari, i medici. Quanto calore e quanta luce nella vita di tutti i giorni.
Ricevo molte lettere, persone sconosciute mi scrivono che le fotografie le hanno protette dalla disperazione. Sono felice di questo.
La vittoria dell’Ucraina, quando verrà, esalterà il nazionalismo. Ma è necessaria. Credo nella vittoria dell’Ucraina. Il bene deve vincere il male. E’ terribile che il prezzo sia costituito da vite umane. E’ terribile che la Russia, un paese enorme, un ex impero, per la ridicola illusione di conservare territori di un tempo, non consideri né le vite dei suoi cittadini, né le nostre vite e la nostra libertà. L’anacronismo, portato all’assurdo e armato, distrugge e spezza città, destini. Oltre alla crudeltà e al desiderio di sopprimere, non porta nulla.
L’Ucraina sta costruendo una società democratica da 30 anni, e vediamo la differenza tra noi e la Russia. Anche chi parla russo rifiuta di essere accostato all’aggressione.
Odessa è Ucraina. Una città con una grande storia che è sempre stata un focolaio di libertà. Oggi è impossibile immaginare che ci sottomettiamo a uno stato totalitario, con un’ideologia fascista. Siamo internazionali, di molte culture, democratici. Siamo parte del mondo”.


La mostra: “Qui Odessa. Cronache da una città che trattiene il respiro”, di Anna Golubovskaya ed Eugenio Alberti Schatz, con la musica di Steve Piccolo, si inaugurerà a Milano, alla Fondazione Stelline, c.so Magenta 61, il 13 luglio alle 18.30. Il 14 si svolgerà l’asta, interamente devoluta alla Fondazione Arca per l’aiuto all’Ucraina.

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