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Piccola posta

A Odessa la “carovana della pace” incontra i sacerdoti locali e succede l'impensabile

Adriano Sofri

L'organizzazione Stop the War Now insieme con le fedi presenti in Ucraina. Si attendevano interventi decisi ma pacati, e invece le parole dei rappresentanti delle chiese sorprendono per aggressività, forza e polemica

Odessa, dal nostro inviato. Odessa, lunedì. La cronaca ha oggi due ragioni, una pessima – missili miserabili sulla città e i dintorni – e una pregevole: l’incontro pubblico fra la “carovana della pace” – 35 persone italiane di buona volontà, accompagnate da Tonio Dell’Olio e dal vicepresidente della Conferenza episcopale, Francesco Savino – e i rappresentanti delle numerose e agguerrite confessioni locali, vescovi e sacerdoti.

Sbrighiamo i razzi, che per fortuna non hanno ammazzato nessuno. Uno ha ferito non gravemente sei persone, anche bambini, e distrutto un gruppo di povere case contadine nel villaggio di Mayaki, a tre quarti d’ora dal capoluogo, sulla strada che va alla frontiera moldava. Ci siamo andati, era recintato da militari e polizia scientifica, c’erano donne e bambine sedute e costernate, un marittimo senza mare e in bicicletta che voleva spiegarci, non senza argomenti, che Putin è un pazzo. Perché venire a bombardare un paesino di campagna, senza bersagli, per giunta facendo alzare dalla Crimea un “bombardiere strategico Tupolev – Tu 22M”? Non siamo riusciti a rispondergli, né se lo aspettava.

Domenica i missili su Odessa erano stati due, uno intercettato ed esploso nel cielo basso sopra il delfinario, sulla costa di Langeron, pieno centro e meta ideale delle famiglie coi bambini del dì di festa. In questo caso il rimbombo era stato fragoroso, e la gente aveva tirato su la testa per additare la fumata nera contro il fondo bianco e azzurro, e poi era tornata ai fatti suoi. Ammesso che gli stati maggiori russi abbiano il proposito di spaventare, per ora è largamente mancato, bambini e cani compresi. 

In quelle ore stava arrivando, in una strenua traversata di pulmini e camion carichi di aiuti, la carovana di Stop the War Now, in rappresentanza di ben 175 organizzazioni italiane nonviolente. Con il proposito, preparato da un piccolo gruppo di volontari venuti da tempo ad abitare in un appartamento cittadino, di portare aiuti a una popolazione che ne ha bisogno, e testimoniare la volontà di non lasciar soli gli ucraini – e di non esserne lasciati soli, del resto. Ottima cosa, faticosa trasferta, ma i più sono giovani, piena di rispetto. Bella avventura anche – hanno incontrato un orso, “giovane, ma di due quintali!”, in Romania, che li ha placidamente contemplati, e viceversa: è ora di liberare il fiero orso dall’iconomania del bellimbusto Putin. Erano venuti altre volte, a cominciare da Lviv-Leopoli, questa è la prima di Odessa, e martedì andranno a Mykolaïv, e noi con loro, poi rientreranno, lasciando il manipolo di stanziali. L’incontro con la stampa – straniera poca, tre italiani, vecchi amici – era convocato nell’edificio dell’accoglienza ai profughi, giusto di fronte alla casa paterna di Isaak Babel’. Ma c’erano appunto tutti i maggiori titolari delle confessioni locali – cattolica, ortodossa ucraina, greco ortodossa, greco-cattolica, e non so – e rispettivi giovani sacerdoti. Sono state due ore martellanti. Si sapeva che i gruppi promotori e i loro esponenti si distinguono per il pacifismo ma anche per l’estraneità al bigottismo o al fanatismo. Ci si aspettava che i capi del clero ucraino avrebbero sottolineato, con la sofferenza della loro gente, la responsabilità dell’aggressione in capo al regime russo, fermandosi là, e che gli italiani, clero e laici, avrebbero rivendicato il valore della pace e della nonviolenza, senza invadere il campo – minato davvero – della difesa ucraina. Ma benché tutto l’incontro sia stato improntato alla più civile e anzi affettuosa solidarietà, le cose sono andate in tutt’altro modo. 

La responsabilità russa è stata esposta, fin dal primo intervento del vescovo cattolico di Odessa, Stanislav Šyrokoradjuk – francescano, del resto – in un inequivocabile crescendo di denunce: “Tre sono i bersagli dell’odio del regime russo: l’indipendenza, 1991, la scelta per l’Europa, 2004 e poi 2014, e la decomunistizzazione, cui si è preteso di opporre la denazificazione”. L’intervento successivo, ortodosso, argomenta la natura tecnicamente “genocida” dell’aggressione russa. E così avanti, salva l’interruzione del vescovo Savino, che evita con cura di attribuire colpe e parla della guerra negatrice di ragione e umanità e di ogni fede in un Dio. Subito dopo ricomincia a grandinare. Un sacerdote ortodosso cita Dzokhar Dudaev, l’eroe della prima ribellione cecena all’Urss, autore di una definizione del “russismo” come ideologia totalitaria paragonabile o peggiore del nazismo o dello stalinismo, e argomenta sulla necessità della resistenza. (Poi gli ho parlato, non sapeva granché d’altro di Dudaev, musulmano scettico, marito di un’ebrea, già generale dell’aviazione sovietica fattosi tifoso dell’indipendentismo estone, e poi a capo dei suoi e assassinato dai russi). Si va avanti così, fino alla conclusione di un giovane prete cattolico, diplomato in Diritto canonico a Roma, che traduce un ultimo intervento del suo vescovo e poi, palesemente approvato da lui, polemizza duramente contro il silenzio di Papa Francesco sulla Crimea, e contro il cedimento intellettuale e morale di chi nega l’aiuto delle armi alla resistenza ucraina. C’è un momento in cui perfino io sono stato tentato di frenare un simile fuoco di fila. Guardavo le facce di visitatrici e visitatori della carovana, belle facce, un po’ attonite. All’inizio, a due ragazzi che mi interrogavano, avevo detto che mi piaceva il loro viaggio, benché ammiri la resistenza armata degli ucraini, e avevo aggiunto, per scherzare un po’, che tutta la prima fila di prelati sarebbe stata sicuramente più guerrafondaia di me. Dopo: troppa grazia.

Scherzo ancora, ma è stato un avvenimento serio e pieno di lezioni per tutti, purché ciascuno non corra a rintanarsi nel suo guscio. E’ strano, ma cose così diverse hanno avuto, ciascuna, l’applauso cordiale dell’uditorio. Magari fosse così in Italia.

Poi si è trattato di venire in albergo a buttare giù questa cronachetta, ed è arrivata la notizia capace di spiazzare le altre. Kremenchuk, sponda del Dnepr, oblast’ di Poltava. Zelensky: “Bombardato un centro commerciale, in cui si trovavano più di mille civili. Il centro è in fiamme, i soccorritori lottano per spegnere l’incendio, il numero delle vittime è impossibile da immaginare…”. Un edificio che non costituiva “nessun pericolo per l’esercito russo. Nessun valore strategico. Solo il tentativo delle persone di vivere una vita normale, che fa arrabbiare tanto gli occupanti”. Ma ogni volta qualcosa si trova, per non ammettere che sia solo delirio e brutalità. Forse tiravano a una strada ferrata che passa non lontano. Forse, nel villaggio di Mayaki, c’è un benzinaio di troppo… 
 

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