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La gran difesa della sponda europea del Mar Nero

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Bulgaria e Romania guardano la guerra da vicino e sostengono Kyiv. Storia di tre alleati che litigavano per tutto, anche per l’Isola dei serpenti 

Sull’Isola dei serpenti, sventola di nuovo la bandiera ucraina. Dell’occupazione russa rimangono reperti della guerra ancora in corso, i soldati di Vladimir Putin hanno cercato di portare via di tutto, ma qualcosa è rimasto, segni sparsi della loro presenza. Questo isolotto grande quanto Alcatraz, dalla forma a croce, piantato nel cuore del Mar Nero, in una posizione strategica molto ambita, per i russi rappresentava la base da cui far partire   un attacco contro Odessa: è il punto da cui controllare il Mar Nero, le coste ucraine, la sfilata di navi. Gli ucraini hanno detto che non hanno fretta di tornare  sull’isola, sarebbero troppo esposti, basta sapere che  lì i russi non ci sono più, che non possono più minacciarli da quel pezzettino di terra che è stato greco, romano, ottomano, russo, romeno, sovietico e infine ucraino.

 

Nell’antichità  era un luogo sacro ad Achille, per i romeni prima, e gli ucraini poi, era invece un luogo di osservazione per ormeggiare le navi. Le due nazioni litigarono molto quando furono scoperti giacimenti di gas e di petrolio tutt’attorno, ma alla fine riuscirono a risolvere la disputa  sulla delimitazione delle acque territoriali e delle zone economiche dell’area: in quell’occasione Putin sostenne l’Ucraina, oggi capiamo che era interessato. L’Isola dei serpenti, che per i greci si chiamava Leuka, mentre per ucraini e romeni prende il nome dalle bisce acquatiche che vi arrivavano trasportate dalla corrente, è il punto di osservazione di tutto il Mar Nero, specchio di contese, di guerre, di letteratura, di vacanze, di commerci, su cui si affacciano gli ucraini, i russi, i georgiani, i turchi e si affaccia anche l’Unione europea con le coste della Romania e della Bulgaria. 

 

Dista esattamente trentacinque chilometri dall’Ucraina e trentacinque dalla Romania, che oggi, non pensa più alle vecchie liti, pensa piuttosto a come aiutare gli ucraini e riportare la pace nel Mar Nero. Dall’inizio della guerra Bucarest si è trasformata in un avamposto speciale della Nato contro la Russia – c’è chi suggerisce di ridare l’Isola dei serpenti ai romeni, così da metterci una bella base Nato e allontanare i russi per sempre. Anche la vicina Bulgaria, un tempo filorussa e filoputiniana, si è unita al coro atlantista grazie a un premier politicamente in bilico, ma dalle idee  chiare. Questa parte europea affacciata sul Mar Nero la guerra se la vede davanti agli occhi tutti i giorni e sa che quest’anno sarà un’estate di guerra, e ha un obiettivo: difendere la sponda europea del Mar Nero. 

 
 Il fortino di Costanza. Prima della guerra, prima del Covid, quello di luglio era il mese in cui le spiagge di Costanza si riempivano di turisti russi, che popolavano soprattutto l’ambitissima spiaggia di Mamaia – la striscia di terra, nota per la sua movida, dove si può andare da una parte all’altra con una passeggiata di tre minuti: sul lato occidentale c’è il lago Siutghiol, a est, invece, il Mar Nero. E poco meno di quattrocento chilometri più in là c’è Sebastopoli, nella Crimea occupata dal 2014 dai russi. Oggi sulla spiaggia della Mamaia si sente sempre meno parlare russo. Oltre al romeno, la lingua più usata è l’inglese. E il motivo è che a poco più di una ventina di chilometri da qui, verso l’entroterra europeo, dentro all’aeroporto civile Mihail Kogalniceanu c’è una delle basi aeree più importanti dell’Alleanza atlantica. La città portuale romena è infatti la sede dell’Enhanced Air Policing dell’area sud, la missione della Nato che controlla lo spazio aereo dell’Alleanza sul fronte più prossimo al conflitto, quello del cosiddetto fianco orientale. Fino alla scorsa settimana lì c’era anche l’Aeronautica militare italiana, che partecipava ai pattugliamenti aerei  dal dicembre del 2021 e che per qualche mese ha guidato la missione. Prima della guerra, i turni dei paesi membri nelle basi della Nato erano un modo per testare la capacità di integrazione e cooperazione delle varie Difese. A febbraio, con l’inizio dell’invasione, è cambiato tutto, e l’Aeronautica italiana ha raddoppiato la sua presenza. Ma l’importanza della base in Romania si intuisce non solo dalle visite di capi di stato internazionali degli ultimi mesi a Bucarest, ma anche da quelle nella base militare Kogalniceanu. L’ultimo a parlare dalla linea di volo di Costanza – piloti in tuta da volo e occhiali da sole di fronte al mare come in “Top Gun” – è stato il presidente francese Emmanuel Macron, che ha detto: “Dobbiamo essere capaci di difenderci”. E il fatto che l’aviazione francese, romena, belga, americana sappiano lavorare insieme per la difesa è un valore aggiunto che Putin non ha. Dopo il Summit di Madrid e la nuova strategia della Nato tutto sta cambiando anche a Costanza. Le forze alleate che opereranno in Romania nelle prossime settimane raddoppieranno, e avranno al centro il contingente americano, formato da circa 5.000 soldati ed equipaggiato con veicoli da combattimento Stryker, veicoli corazzati Bradley, carri armati Abrams ed elicotteri Black Hawk e Apache. Ci saranno poi dei magazzini in cui saranno posizionati equipaggiamenti e munizioni militari a cui potranno accedere le Forze di risposta rapida della Nato che dovrebbero arrivare alla base in caso di necessità. Intanto, la missione di pattugliamento dei cieli dell’Aeronautica italiana è stata spostata più a nord, in Polonia.

 

Costanza piaceva moltissimo ai turisti russi, ma qualcosa è cambiato già prima della guerra: la base di Kogalniceanu

 

I nove di Bucarest e la Moldavia. Romania, Bulgaria, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria, Lituania, Lettonia ed Estonia sono i nove di Bucarest, il gruppo di paesi della Nato steso lungo il fianco orientale dell’Alleanza. La loro posizione li ha spinti ad approfondire la cooperazione militare, il meno desideroso di approfondirla è l’ungherese Viktor Orbán. Il presidente romeno Klaus Iohannis dallo scoppio della guerra ha lavorato per rafforzare i rapporti con gli europei e gli americani. E’ andato due volte a Kyiv, una con Mario Draghi, Emmanuel Macron e Olaf Scholz, a esprimere la sua vicinanza al presidente Volodymyr Zelensky. La Romania è doppiamente preoccupata per la sua sicurezza: per il Mar Nero, ma anche per la Moldavia. La vicina nazione, che ha da poco ottenuto lo status di candidato per entrare nell’Unione europea, teme di essere coinvolta nel conflitto attraverso la Transnistria, l’enclave filorussa in cui sono stanziati i soldati di Mosca e un deposito di armi ben equipaggiato. La Transnistria è un museo di storia sovietica a cielo aperto, usa il rublo, nella bandiera ha la falce e martello e il timore è che da lì possa aprirsi un altro fronte. La Romania, oltre a un confine, ha anche molti legami con la Moldavia, a cominciare dalla lingua, e Iohannis ha cercato di sensibilizzare costantemente i suoi alleati su quanto il pericolo che viene da lì non vada sottovalutato: la protezione va rafforzata, non bisogna distrarsi. A Kyiv, al fianco di Draghi, Iohannis aveva detto: “Garantire l’integrazione  di Ucraina, Moldavia  e Georgia  è fondamentale per costruire uno scudo forte e duraturo attorno ai nostri stessi valori. Riguarda la nostra capacità di proiettare sicurezza e stabilità nel nostro vicinato. Non c’è più tempo per le esitazioni”. 


La tenerezza perduta. Non saremo “teneri” con la Russia, aveva detto il premier bulgaro Kiril Petkov pochi giorni dopo l’invasione di Putin in Ucraina e allora era sembrata una speranza più che un annuncio. Invece questo politico quarantenne che ha studiato ad Harvard (assieme a Michael Porter) ed è fissato con la competitività e lo sviluppo ha trasformato la postura internazionale del suo piccolo paese appoggiato, con le sue spiagge lunghe e dorate, sul Mar Nero. Qualche giorno dopo la frase sulla tenerezza perduta, Petkov ha licenziato il suo ministro della Difesa, Stefan Yanev, che si era rifiutato di definire “guerra” l’azione russa in Ucraina e utilizzava la versione di Putin sull’operazione speciale. Poiché nessun cambiamento radicale è gratis, Petkov si è giocato la carriera per spostare la Bulgaria dal campo dei filorussi a quello dei solidi filoeuropei. Un partito della sua coalizione di governo se n’è andato proprio in contrasto con questa mancata tenerezza nei confronti di Mosca, il Parlamento ha votato la sfiducia, Petkov si è dimesso ma il presidente, Rumen Radev, gli ha dato l’incarico di formare un nuovo esecutivo. Si naviga a vista, insomma, ma questa navigazione va in una direzione che prima d’ora pareva impossibile. Un esempio: prima della guerra, Sofia dipendeva per il 90 per cento dal gas russo ma quando Mosca ha cominciato a chiedere i pagamenti in rubli minacciando il taglio delle forniture, Petkov non si è sottomesso al ricatto. E anzi, ha organizzato in poche ore con i  paesi vicini un blitz diplomatico sorprendente: ha chiuso lo spazio aereo al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, impedendogli di andare dalla filorussa Serbia. “E’ stata una decisione semplice”, ha raccontato Petkov, quell’aereo “non doveva volare” nel nostro cielo: lui procede così, muovendosi per consapevolezze granitiche. Non ha accettato nemmeno il ricatto dei compagni di coalizione né delle tante forze filorusse che operano nel paese, dicendo: ho paura che torneremo teneri,  “stiamo combattendo molto duramente per stare dalla parte giusta della storia”. 

 

Il bulgaro Petkov ha trasformato la postura internazionale del suo paese, dal campo dei filorussi a quello degli europeisti


Le esplosioni. Nel novembre del 2011, prese fuoco un deposito di armi a Lovnidol, nel cuore della Bulgaria. Nel 2015, presero fuoco due capannoni della più grande fabbrica di armi del paese, a Sopot, nella parte occidentale della  splendida valle delle rose. Nel 2020 una quarta esplosione distrusse parte del deposito di armi vicino alla città di Maglizh, nel centro-sud della Bulgaria. Questi episodi erano uniti da tre elementi: nessuna vittima, ordigni attivati da remoto e la presenza di commesse della Emco, la società di produzione ed esportazioni di armi dell’imprenditore bulgaro Emilian Gebrev. Un’inchiesta di Bellingcat ha mostrato che queste esplosioni sono legate a quella ben più famosa e disastrosa accaduta in Repubblica ceca nel 2014 per la quale ci furono molte rappresaglie diplomatiche contro la Russia: Praga accusò Mosca di essere il mandante dell’attacco, perché le armi in quel deposito erano destinate a Georgia e Ucraina. Bellingcat ha scoperto nel 2021 che l’attacco in Repubblica ceca in realtà all’origine doveva essere fatto in Bulgaria, che gli agenti del Gru, l’intelligence militare  russa, dislocati per l’operazione erano gli stessi che avevano compiuto operazioni di questo tipo in territorio europeo e che l’imprenditore Gebrev è stato avvelenato con la stessa sostanza usata per avvelenare Sergei Skripal in Inghilterra e Alexei Navalny in Russia: il novichok. Secondo le fonti di Bellingcat, la società di Gebrev “ha giocato un ruolo cruciale nel rafforzare le difese militari dell’Ucraina”. Questo naturalmente accadeva prima dell’invasione.


Le espulsioni. Il 3 luglio, all’aeroporto di Sofia, due aerei russi hanno caricato quasi duecento persone per riportarle a Mosca (sono voli eccezionali: non c’è collegamento aereo tra le due capitali a causa delle sanzioni). Si tratta di 70 dipendenti dell’ambasciata russa in Bulgaria e dei loro familiari: il governo di Petkov li ha espulsi accusandoli di fare attività di propaganda e di spionaggio. Il premier ha detto di avere avuto le prove dai suoi servizi e non ha fornito ulteriori dettagli, ma i media bulgari hanno raccontato che alcune persone di spicco nel mondo politico, accademico e dell’informazione ricevevano fino a duemila euro al mese per difendere posizioni russe e deformare il dibattito in chiave pro russa. Eleonora Mitrofanova, ambasciatrice russa in Bulgaria dal gennaio dello scorso anno, ha risposto con un ultimatum: se cacciate i miei dipendenti (in tutto sono 120, molti), chiudiamo l’ambasciata qui e anche la vostra a Mosca, cioè è la fine dei rapporti diplomatici. Come prevedibile, il premier Petkov non ha accettato nemmeno questo ricatto, nonostante le ennesime turbolenze per la tenuta del suo governo. In realtà il conflitto tra Petkov e la Mitrofanova va avanti dall’inizio della guerra: l’ambasciatrice ha irriso il governo che ha voluto dedicare parti della linea metropolitana “agli eroi dell’Ucraina” e a Boris Nemtsov, leader dell’opposizione russa ucciso davanti al Cremlino da sicari nel 2017. Poco prima dell’espulsione dei funzionari russi, l’ambasciatrice aveva lanciato una raccolta fondi chiedendo ai cittadini bulgari di sostenere l’operazione speciale russa in Ucraina.

 

Sono sei le spiagge più belle di Varna, che sulla costa bulgara è la città più grande e anche quella che ai turisti russi piaceva di più. La più famosa è la spiaggia del sole che non si chiama così a caso, ma perché hanno calcolato che da maggio a ottobre le ore di sole sono 1.750. Per un breve periodo della sua storia, Varna è stata chiamata Stalin, un nome severo e brutale per una città che sembra fatta dell’oro delle sue spiagge. Quel colore di tramonto si vede anche da lontano, il suo porto dista 600 chilometri da Odessa, città gemella che la guarda dall’altra sponda del Mar Nero, e alla quale Varna e anche Costanza sembrano fare una promessa: l’Europa ti protegge da qui. 


(ha collaborato Giulia Pompili)