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Anatomia dell'abbraccio europeo all'Ucraina

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Draghi, Macron e Scholz arrivano a Kyiv per definire i rapporti futuri con Zelensky. Nell’Ue cresce il partito di quelli che: uniti sì, ma non per sempre 

In Europa il partito della “pace”, che vuole che la guerra in Ucraina finisca presto e con il miglior compromesso possibile, batte il partito della “giustizia”, che vuole che a Vladimir Putin e a tutti i dittatori del mondo passi la voglia di lanciare una guerra contro un paese sovrano senza ragione se non per una volontà d’espansionismo e di annientamento di un popolo. L’European Council on Foreign Relations ha fatto un sondaggio in dieci paesi dell’Unione europea per studiare non tanto l’unità del continente e la sua solidarietà, quanto la tenuta di questo nuovo assetto da – lo diciamo? – superpotenza. L’esito è piuttosto deprimente: lo slancio iniziale si è già consumato, tranne che in Polonia. In Italia, il partito della pace è il più vigoroso di tutti gli altri paesi: se in Finlandia il 90 per cento degli intervistati dice che il principale responsabile della guerra in Ucraina è la Russia, in Italia la percentuale è del 56 per cento (in Germania e in Francia, i paesi di cui raccontiamo sempre le ambiguità e la riluttanza la percentuale è del 66 e del 62 per cento).

 

Se la media europea di chi considera Ucraina, Ue e Stati Uniti responsabili con le loro provocazioni inaccettabili è del 15 per cento, in Italia la percentuale è del 27 per cento, la più alta dei paesi consultati. Chi è il paese che ostacola il raggiungimento della pace? In media, il 64 per cento degli intervistati risponde la Russia e il 17 risponde Ucraina, Ue e Stati Uniti. In Italia Russia e Ucraina si equivalgono, il 39 per cento considera la Russia l’ostacolo alla pace, il 35 indica l’occidente. In generale gli italiani sono i più decisi a dire che a uscirne peggio, da questa guerra, saranno gli europei, che i costi saranno insostenibili e che spendere nella difesa è inutile, meglio salvare i posti di lavoro. E di nuovo: se le critiche più corpose vanno sempre in direzione della Germania, questa rilevazione mostra che i tedeschi sono molto più falchi degli italiani. Anche la frattura est-ovest sulla gestione della guerra si fa sempre più evidente, con il ruolo di guida del nord. 

 

E’ anche per questo che la visita di oggi a Kyiv del premier Mario Draghi, del cancelliere Olaf Scholz e del presidente Emmanuel Macron è tanto significativa. Non solo perché è la prima volta per tutti e tre i leader ma anche perché il loro messaggio darà forma agli equilibri dei prossimi mesi di guerra, ancor più ora che Vladimir Putin mostra i muscoli e ci fa credere che sul campo l’Ucraina sia quasi spacciata. I tre leader non sono del tutto allineati: il tedesco Scholz è il più confuso e cauto di tutti, il francese Macron si vuole ritagliare il ruolo di mediatore e quindi esclude ogni istanza del partito della giustizia (lui lo chiama il partito dell’umiliazione) mentre l’italiano Draghi è il più pragmatico, forse addirittura il più pronto alla resistenza di medio periodo, certo più della media degli italiani. Oggi li vedremo in concerto e cercheremo di capire quanto stretta sono, e siamo, ancora disposti ad abbracciare l’Ucraina. A Kyiv le aspettative non sono però  alte: il consigliere di Zelensky, Oleksiy Arestovych, uno dei più puntuti nei commenti, ha riferito  alla Bild i suoi timori: che i tre arrivino con la proposta di un Minsk III, un accordo sulla falsariga dei precedenti che prevede grandi e pericolose cessioni da parte dell’Ucraina. “Diranno che dobbiamo porre fine alla guerra che sta causando problemi alimentari e problemi economici”, ha detto Arestovych.   

 

In Italia, il partito della pace a tutti i costi è il più vigoroso, anche se poi passiamo il tempo a criticare  Parigi e Berlino


L’adesione dell’Ucraina. Con il suo parere, il 17 giugno la Commissione darà mandato ai capi di stato e di governo al Consiglio europeo del 23 e 24 giugno per decidere sulla concessione dello status di candidato all’Ucraina (e alla Moldavia, mentre la Georgia dovrebbe essere rinviata a data da destinarsi). Ma il documento presentato da Ursula von der Leyen non sarà risolutivo. La raccomandazione è: concedere lo status di candidato se viene rispettata una serie di condizioni alla fine della guerra. Toccherà ai leader dire se vogliono dare lo status di candidato subito, oppure aspettare che la guerra sia finita e che l’Ucraina abbia fatto i compiti a casa. La Germania e altri paesi scettici – come Paesi Bassi, Austria e Danimarca – propendono per la seconda soluzione, che relegherebbe l’Ucraina nell’anticamera (come Bosnia Erzegovina e Kosovo: candidato potenziale). Sarebbe un esito molto deludente per Volodymyr Zelensky e i suoi, che hanno chiesto di fare del 24 giugno una giornata di svolta per la guerra – e lo sanno benissimo che il processo di adesione durerà molti anni. E’ lo stesso argomento usato da chi sostiene la concessione dello status di candidato. “Offrire all’Ucraina lo status di paese candidato può essere un gesto simbolico importante, un messaggio di sostegno nel mezzo della guerra”, ha detto Draghi. Oltre all’Italia, tra i favorevoli c’è gran parte dei paesi dell’est e del nord: la Polonia e i Baltici in prima linea, ma anche Finlandia e Irlanda. Altri paesi, come la Spagna e il Portogallo, hanno detto che non si metteranno di traverso.


Occhio ai Paesi Bassi. La Francia, che ha la presidenza di turno dell’Ue, negli scorsi mesi si era mostrata scettica come la Germania. Macron ha ribadito più volte che “ci vorranno anni, se non decenni”, e ha proposto un progetto alternativo con la costituzione di una confederazione, la “Comunità politica europea”, dove accogliere chi sta nella sala d’aspetto dell’Ue. Ma la linea francese si sta trasformando. Lunedì il ministro degli Affari europei di Macron, Clément Beaune, ha detto che “bisogna dare un segnale positivo il più presto possibile”. In visita in Romania ieri, Macron ha spiegato che una delle ragioni del viaggio  a Kyiv sono “discussioni di nuova natura con l’Ucraina” prima delle decisioni del Consiglio europeo. “Dobbiamo inviare dei segnali politici, noi dell’Ue, nei confronti dell’Ucraina e del popolo ucraino visto che resistono in modo eroico da diversi mesi”, ha detto Macron. Le cose potrebbero evolvere anche a Berlino. Verdi e Liberali stanno facendo pressioni su Scholz per dare il via libera allo status di candidato senza precondizioni. L’ostacolo principale diventerebbero allora i Paesi Bassi. Nel 2016, in un referendum, gli olandesi dissero “no” all’accordo di associazione Ue-Ucraina perché fu presentato come un primo passo verso l’adesione e verso un’ondata di migranti ucraini. L’anno dopo il premier Mark Rutte ottenne dal Consiglio europeo una dichiarazione in cui garantiva che non sarebbe stato il primo passo verso lo status di candidato. L’altra incognita è Viktor Orbán, tanto per cambiare. Il premier ungherese non si è ancora espresso pubblicamente sulla richiesta di adesione dell’Ucraina.

 

La variante francese. Un altro segnale di possibile svolta francese sullo status di candidato dell’Ucraina è il “non paper” che Macron ha fatto circolare tra le capitali sulla sua “Comunità politica europea” e che il nostro David Carretta ha potuto consultare. Il progetto era stato lanciato da Macron nel suo discorso il 9 maggio a Strasburgo e a molti era apparso come un tentativo di mettere l’Ucraina nella sala d’attesa. Il “non paper” spiega che lo status di candidato e la Comunità politica europea non sono alternativi. “Quale che sia la tappa superata in occasione del prossimo Consiglio europeo, la politica di allargamento, per le riforme necessarie per aderire all’Ue e la durata che necessariamente deriva, non offre oggi il quadro politico necessario per rispondere all’urgenza delle necessità storiche e geopolitiche nate dalla guerra contro l’Ucraina e sviluppare la strutturazione politica del nostro continente”, dice il “non paper”. Macron vuole creare già “quest’anno” una Comunità politica europea “tra tutti gli stati europei che vogliono contribuire insieme alla sicurezza, alla stabilità e alla prosperità del nostro continente”. Il progetto è aperto “agli stati europei che condividono una base di valori democratici, che siano membri dell’Unione o no”, che “vogliano aderire” o “che l’abbiano lasciata”. La Cpe – questo l’acronimo in italiano, Ecp in inglese – non sostituirebbe né il Consiglio d’Europa, né l’Ocse o la relazione transatlantica, ma servirebbe a “ritrovare il senso della comunità” e rafforzerebbe i “legami politici, economici, culturali e di sicurezza”. La sua struttura giuridica sarebbe “leggera”, con una capacità decisionale autonoma, e si riunirebbe una volta l’anno a livello di capi di stato e di governo e di ministri per cooperare su politica estera e sicurezza, cambiamento climatico e energia, sicurezza alimentare, infrastrutture e connessioni, mobilità, migrazione, lotta contro il crimine organizzato, relazioni con altri attori geopolitici. Dentro l’Ue, l’unico entusiasta è Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, che ha rilanciato il progetto ribattezzandolo “Comunità geopolitica europea” e annunciando un vertice per l’estate. Quasi tutti gli altri si chiedono a cosa mai possa servire questa Cpe. 

 

L’Italia è favorevole all’adesione di Kyiv, Francia e Germania  si presentano meno scettiche. Rimangono due ostacoli


Il grano e Odessa. La visita di Draghi a Odessa, se confermata, è molto significativa: soltanto Michel prima di lui è andato oltre Kyiv e le città dell’orrore attorno, Irpin e Bucha. Il viaggio a Odessa mostra che la soluzione della crisi alimentare è una priorità del governo italiano, anche se al momento le varie mediazioni e pressioni sulla Russia non hanno avuto successo. Gli Stati Uniti hanno annunciato che contribuiranno alla costruzione di silos ai confini dell’Ucraina e questa è la dimostrazione che la via del mar Nero sembra talmente impervia che è necessario organizzare un’alternativa via terra (che pure è complicata a causa dei danni alla rete ferroviaria). Già ad aprile era arrivato in Spagna un cargo che è passato dalla rotta baltica, mentre negli scorsi giorni un altro convoglio è passato dalla Polonia. La via del mare deve essere sbloccata ma i tempi potrebbero essere lunghi anche se si è aperto uno spiraglio che è forse quello su cui lavora lo stesso Draghi. La Turchia, che si dice mediatrice ma in realtà parla molto più con i russi che con gli ucraini, ha detto che c’è un piano assieme all’Onu per creare dei corridoi alimentari in zone che non devono essere sminate (le mine sono state messe dagli ucraini per difendersi dall’arrivo dei russi, ma oggi sono vissute dal partito della pace come la dimostrazione del fatto che l’Ucraina non voglia alcun compromesso né risolvere la crisi del grano). Ci vuole l’approvazione di Mosca, ha detto Ankara, ma questi corridoi potrebbero essere la cosa più vicina alla soluzione che auspicano i più in Europa: una missione navale internazionale che scorta le navi cargo. E’ una ipotesi rischiosa, perché le navi della scorta sarebbero militari e con tutta probabilità sarebbero della Nato, il che significa che ci possono essere degli incontri, diciamo così, con le navi russe. Poi ovviamente la Turchia deve permettere il passaggio di queste navi perché possano accedere al mar Nero.


Il negoziato con il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, è in queste settimane il più doloroso, ancor più per Draghi che lo aveva definito senza ghirigori “un dittatore”. Sappiamo che ci saranno concessioni da fare per poter accogliere con tutti gli onori Zelensky anche al vertice della Nato di fine mese a Madrid (l’invito formale è arrivato ieri). Perché la visita dei tre leader europei e la gestione di questa fase è guardata e sezionata come in un laboratorio da tutti gli autocrati del mondo, cinesi, turchi, tutti. Se la reazione a un’aggressione non è dura e non resiste nel tempo, questi penseranno che allora tanto vale rischiare. Si lavora perché accada l’esatto contrario.

(ha collaborato David Carretta)