Eric Adams (foto Spencer Platt/Getty Images) 

La cicatrice di Eric Adams. Chi è il prossimo sindaco di New York

Stefano Pistolini

Il 2 novembre la città va al voto e con tutta probabilità eleggerà un ex poliziotto afroamericano di poca poesia e tanta pratica che mette d’accordo molte anime dell’elettorato dem

New York finest: i migliori della Grande Mela. Sono gli uomini in blu, i poliziotti che vigilano sulla sicurezza della città, gli stessi adesso al centro di polemiche e contestazioni legate alla questione razziale. Uno di loro ha in mano la chiave dell’ufficio di sindaco a New York City, in vista del voto del 2 novembre, dopo essersi aggiudicato la nomination democratica con una travolgente rimonta su Andrew Yang, il politico di sangue taiwanese che sembrava destinato a sedere su quella poltrona dopo una più che onorevole performance nelle primarie per le presidenziali. Invece, giorno dopo giorno, si è allungata su di lui l’ombra di Eric Adams e per Yang non c’è stato niente da fare. Ma non è una sorpresa, perché Adams in città è una leggenda vivente e la portata rappresentativa del suo personaggio è difficile da contrastare. Al punto che ora la sfida finale col candidato repubblicano Curtis Sliwa – bislacco fondatore dei Guardian Angels, quelli col basco rosso, a tempo perso conduttore radiofonico e paladino dei gatti randagi –  sarà una formalità che Adams s’aggiudicherà a valanga, aprendo un nuovo capitolo di un’esistenza molto particolare. Perché Adams ha fatto il poliziotto per 22 anni, dopo essere approdato alla divisa in circostanze particolari e chiudendo la carriera coi gradi di capitano e in una posizione assai in vista, “emblematica” per quelle che sono le dinamiche del NYPD del nuovo millennio. 

   

  

Infatti Adams è un afroamericano e un poliziotto afroamericano e la cosa coinvolge risvolti razziali, politici e perfino culturali, su cui si deve riflettere. E perché Eric Adams, prossimo sindaco di New York, è un prodotto tipico ed esemplare della città che racconta col suo personaggio, rilanciando un’opzione identitaria nello stesso periodo in cui la Grande Mela sembra spossessata della sua anima originale, fiaccata dall’invasione dei capitali, dal terremoto della pandemia (e dalla relativa mala gestione) e dal diffuso senso di scollamento sociale. 

   
Adams è puro orgoglio newyorchese, declinato in stile brooklynese – circostanza cui non sarà insensibile una buona fetta dell’elettorato. Le sue priorità sono sicurezza, lavoro, educazione: niente fronzoli, ma estremo pragmatismo nell’approccio alla carica. E’ il biglietto da visita dell’ex poliziotto che arriva dalla gavetta, si è spesso sporcato le mani e non fa che ribadire che per lui non è questione di posizionamento politico, ma di comprensione delle issue e di efficacia nel risolverle e nel servire la causa comune. “Conosco i newyorchesi”, dice. “I newyorchesi vogliono vivere una vita sicura. Vogliono che i loro figli ricevano una buona istruzione, vogliono che ci sia lavoro. Se ne fregano di sentir parlare di destra e sinistra. Quella è roba per addetti ai lavori. Loro guardano al sodo. E io sono come loro: sono un newyorchese qualunque”. Per lui i partiti sono architetture inutili, quelle che contano sono l’organizzazione, la competenza e l’efficacia. 

     
Non a caso le prime sortite politiche Adams le ha fatte sotto le insegne repubblicane, salvo cambiare con disinvoltura schieramento, optando per l’altro, quello che nella sua città vince quasi sempre. Eppure si è aggiudicato la nomination dem con un programma in distonia coi punti di vista dei progressisti e  dei liberal che contano in città: la polizia, per esempio, per lui continua a rappresentare una soluzione e non un problema e va respinta ogni ipotesi di ridurle i finanziamenti. E il Partito democratico, se vuole continuare a contare a quelle latitudini, deve ritrovare il contatto con l’elettorato multirazziale e della classe lavoratrice i cui interessi pretende di rappresentare.

 

Un posizionamento, questo, che ora colloca Adams sulla mappa politica nazionale, grazie alla potenza e all’accessibilità del suo personaggio, all’enfasi con cui si esprime e ai contenuti che fa confluire nella sua figura: “Penso di essere la faccia di un  nuovo Partito democratico” dichiara di se stesso, “e se il mio partito non sarà in grado di comprendere il cambiamento che stiamo realizzando qui a New York, penso che farà i conti con seri problemi al voto di medio termine dell’anno prossimo. E che gli stessi problemi potrebbero investire anche le presidenziali del 2024”.  Che è un messaggio esplicito e una call to action a cui potrebbero accodarsi parecchi americani in cerca di chiavi di lettura per decodificare l’attuale scenario politico se, per esempio, si tiene conto dell’indicatore secondo il quale nel voto dell’anno scorso il Partito democratico ha perduto qualcosa tra l’1 e il 2 per cento nel sostegno dell’elettorato afroamericano e addirittura tra l’8 e il 9 per cento delle preferenze ispaniche. Sintomi di un malessere del quale il metodo Adams potrebbe essere la cura. 

    

Eric Adams (Michael M. Santiago/Getty Images)
   

Ma è ora di capire chi sia davvero questo 53enne muscoloso, dalla risata rumorosa e dall’espressione che trasuda esperienza della strada. Eric Adams nasce a Brownsville, un distretto di Brooklyn, e cresce non lontano da lì, a Bushwick. I genitori sono emigrati a nord dall’Alabama, con poca istruzione e poche chance di farsi largo nella metropoli. Eric è il quarto di sei figli, la madre fa le pulizie negli uffici e il padre trova solo lavoretti saltuari da macellaio, mentre fa i conti con seri problemi di alcolismo. Eppure i sacrifici e la caparbietà di Mrs. Adams permettono alla famiglia di ottenere il mutuo per una casa nella zona di South Jamaica, al Queens, area modesta ma dall’aria vagamente residenziale, che sembra possedere i crismi del sospirato miglioramento per chi parte dai gradini più bassi del quadro sociale. Illusione: la psicogeografia slitta in un baleno e per le vie di South Jamaica fanno la loro comparsa le gang più malfamate. Come in un destino già scritto, il 14enne Eric si affilia ai 7-Crowns e fa in tempo a procurarsi una reputazione da piccolo duro il giorno in cui in una rissa coi Savage Skulls viene colpito alla testa da una mazza da baseball chiodata, guadagnandosi la profonda cicatrice ancor’oggi in vista sul suo cranio rasato. Intanto lavora agli ordini di un gangster locale chiamato Micki, protegge una prostituta e si occupa di furtarelli.

 

Ha 15 anni quando viene arrestato insieme al fratello per aver rubato un televisore. Condotto alla stazione di polizia viene picchiato nel sottoscala da due poliziotti bianchi, fin quando un poliziotto nero interviene a fermarli. E’ l’episodio che fa scattare la molla nella testa del giovane Eric. A 17 anni il proposito è maturato: vuole anche lui diventare un poliziotto. Sogna di diventare l’eroe del quartiere, vuole assaporare il rispetto e il timore imposti dalla divisa blu e forse approfittare dei privilegi che gli garantirebbe, incluse le bevute gratis. Entrare in polizia è da tempo uno dei più efficaci ascensori sociali per gli emigrati a New York, ma il privilegio è ristretto quasi esclusivamente ai bianchi, preferibilmente di origini irlandesi. Per i neri del sud non è così facile, ma al tempo stesso le veloci e profonde modificazioni demografiche della città costringono il dipartimento a superare le riluttanze e arruolare membri delle minoranze. 

   
Nel 1984, otto anni dopo il pestaggio di cui è stato vittima, Adams si diploma alla New York Police Academy e viene assegnato alla polizia stradale, fin quando questa non si fonde con la NYPD. Eric entra allora in servizio prima al distretto del Greenwich Village e poi in quello di Greenpoint a Brooklyn, terreno di casa. Durante i corsi di formazione entra in contatto con docenti di colore politicamente consapevoli e con preti attivisti come il reverendo Herbert Daughtry, tutti impegnati a promuovere la protesta contro le uccisioni dei giovani neri per mano degli agenti. 

   
E’ in questa fase che Adams sviluppa una prima coscienza razziale, al punto da accettare il mandato propostogli dai suoi mèntori: una volta in polizia, combattere dall’interno le storture di una struttura dominata dai bianchi. A 33 anni Eric ottiene la promozione a sergente per la qualità del suo servizio. Intanto il suo impegno sul fronte razziale l’ha già portato alla carica di presidente del Gran consiglio dei guardiani, la confraternita ufficiale dei poliziotti neri newyorchesi. E’ la posizione che conduce Adams a confrontarsi con Louis Farrakhan, il leader della Nation of Islam e addirittura a condividere un’apparizione pubblica con lui, non facendo mistero riguardo al suo apprezzamento per l’approccio pragmatico con cui Farrakhan parla ai fratelli neri, spingendoli a lavorare duro, risparmiare e acquistare proprietà non appena possibile – gli stessi princìpi inculcatigli da sua madre. Al tempo stesso, l’accostamento a Farrakhan non risparmia ad Adams critiche feroci da parte dei media, sul cui radar ormai la sua figura appare con ricorrenza. E’ il New York Post, in particolare, ad attaccarlo duramente, per la palese sintonia con un leader nell’occhio del ciclone come Farrakhan, coi suoi commenti antisemiti in una città nella quale la comunità ebraica è essenziale.

    
Nel 1993 Adams, sia pure con riluttanza, appoggia la corsa di David Dinkins, primo sindaco nero della città ora in cerca di rielezione. Nell’occasione favorisce l’incontro tra Farrakhan e il centrista Dinkins, suggerendo a quest’ultimo di proporre l’utilizzo del servizio d’ordine della Nation of Islam per sorvegliare i quartieri a rischio. Dinkins infine viene sconfitto da Rudy Giuliani e per tutta risposta Adams nel 1995 fonda “100 Blacks in Law Enforcement Who Care”, gruppo di pressione che combatte le ingiustizie nella comunità nera di New York nelle sue interazioni con la polizia, denunciando i casi di brutalità, prepotenza e oppressione razziale. Come iniziativa personale, Adams organizza dei corsi e perfino delle apparizioni televisive in cui insegna ai giovani afroamericani il corretto comportamento da tenere allorché si viene fermati dalla polizia, inclusi suggerimenti di base come accendere subito la luce interna dell’auto e posare le mani ben in vista sul volante.

 

Quando partecipa al magazine tv Nightline, sulla rete nazionale Abc, Adams battezza queste condotte col loro vero nome: “Modi per non farsi sparare”. Diversi attivisti, a cominciare dal reverendo Al Sharpton, a quel punto lo criticano aspramente, sostenendo che con la sua iniziativa sta insegnando ai giovani neri “come sottomettersi”. Nel frattempo, sebbene la lotta al crimine sia al primo posto sia nel piano “tolleranza zero” di Giuliani sia nella visione di Adams, i rapporti col sindaco sono tutt’altro che facili. Adams non risparmia gli attacchi a Giuliani: “All’origine di un crimine commesso da povera gente c’è un crimine commesso dai colletti bianchi. Sono i bianchi a vendere le armi ai ragazzi neri, ci sono i bianchi dietro il commercio di crack venduto dai piccoli spacciatori neri nei ghetti”. Quel che Adams denuncia è la manomissione da parte di Giuliani delle statistiche sul crimine, sulle relative responsabilità e sugli interventi di polizia, correttivi messi in atto allo scopo di coprire il pregiudizio razziale su cui si basa il sistema “stop and frisk”, ovvero “fermo e perquisizione” utilizzato dagli agenti nei confronti dei giovani neri e ispanici, spesso senza motivazione. Adams dichiara: “La menzogna è alla base della formazione di noi poliziotti. All’accademia, alle reclute si insegna a non guardare le persone di colore come diverse, ma di fatto lo facciamo tutti. La maggior parte degli arrestati è afroamericana: dobbiamo vigilare su questo scenario. Dobbiamo essere onesti e parlarne”. 

  
Nel 2001 Adams è tra i primi sulle macerie del World Trade Center, a capo del distaccamento che avrebbe dovuto contenere l’eventuale secondo attacco. Nello stesso anno si iscrive alle liste del Partito democratico e nel 2006 conclude la propria esperienza in polizia col grado di capitano. Nello stesso anno entra nel Senato dello stato di New York e nel novembre del 2013 viene eletto presidente del quartiere di Brooklyn – primo afroamericano e col 90 per cento dei suffragi –  venendo rieletto nel 2017. E’ la piattaforma per il decollo sulla ribalta nazionale, inserito tra le principali figure di mediazione con le proteste del movimento Black Lives Matter e come personaggio di transizione verso il rinnovamento delle istituzioni in carenza di giustizia sul fronte razziale. 

   

 Eric Adams (Spencer Platt/Getty Images)
   
 

Adams critica pubblicamente l’uso della violenza negli arresti dei neri e denuncia l’uccisione di Eric Garner, strangolato dai poliziotti su un marciapiede di Staten Island. Ma scende in piazza quando gli agenti Wenjian Liu e Rafael Ramos vengono uccisi in servizio, invocando il coinvolgimento dell’intera cittadinanza nello sforzo di ristabilire un rapporto di mutuo rispetto con la polizia. Poi si mobilita con gli studenti dopo il massacro nella scuola di Parkland, Florida, manifestando al loro fianco per il controllo e il contenimento della circolazione delle armi. Al tempo stesso, nel corso della campagna per la poltrona di sindaco, prende posizione contro Alexandria Ocasio-Cortez e gli altri democratici che invocano la riduzione dei finanziamenti alla polizia, perché “così facendo si metterebbe in pericolo la vita dei newyorchesi”. Nelle sue apparizioni pubbliche chiede si parli più spesso del crimine black-on-black, troppo spesso confinato all’interno della comunità afroamericana, un argomento verso il quale i liberal bianchi sono riluttanti a prestare attenzione. Adams dice d’aver appreso per strada un importante segreto sui criminali della sua città: una grande percentuale di loro soffre di dislessia, difficoltà di apprendimento e malattie mentali. E’ un problema da affrontare alla radice, per il quale Adams afferma di voler “cambiare l’ecosistema della sicurezza pubblica”, assumendo non solo più poliziotti, ma più professionisti della salute mentale e operando per aiutare i bambini che non vanno a scuola: “Se non ti istruisci, finirai in carcere”. 

  
Nel frattempo, come ogni personaggio pubblico, anche Adams ha pubblicato un libro. Il suo però non è un manifesto politico o un’autobiografia. Si intitola “Finalmente sano: un approccio basato sulle piante per prevenire e combattere il diabete e altre malattie croniche” ed è un prontuario sull’alimentazione vegetariana per la salute. Dopo la diagnosi di un grave diabete con perdita della vista, Adams è diventato vegano e attribuisce a questa scelta il merito di aver sconfitto la malattia. Da allora si batte per convincere tutti a diventare vegetariani, in particolare tra i neri, dove vecchie tradizioni alimentari riflettono secoli di razzismo e di esclusione. 

     

   

 

Comunque, a pochi giorni dal voto, Adams centellina le apparizioni e si mantiene in disparte con l’atteggiamento di chi è in controllo della situazione. Difficile definirlo una figura obamiana, perché in lui la prevalenza dell’azione sul pensiero è praticamente un orgoglio. Di sicuro è uno strano esemplare di democratico, se lo si fotografa nel momento in cui la sinistra del partito sembra prevalere. Adams non è un radicale, il suo animo da poliziotto è bene in vista anche se non indossa più la divisa e non perde occasione per dire che il suo partito ha smarrito il contatto con quell’elettorato che detesta il disordine nelle proprie città. Dice di aver bussato tante volte a tante porte per informare una madre della morte del figlio e che in quel momento conta poco che a ucciderlo sia stato un poliziotto o il membro di una gang. La tragedia è irreversibile e non può essere recintata negli slogan secondo cui “le vite dei neri contano”. Non c’è selezione: contano tutte. Ed è la sicurezza ad avere la precedenza. La sicurezza come effetto di un’organizzazione sociale: “Da sindaco, premierò l’agente che ha impedito a qualcuno di commettere un crimine, che ha cambiato l’atmosfera nella sua comunità, che ha partecipato a un cambiamento olistico del nostro ecosistema. Premierò l’agente che non solo ha reagito ai crimini ed effettuato arresti, ma colui che fa sì che restino sulla strada giusta le persone che ha giurato di servire e proteggere”. E aggiunge che mentre il compianto George Floyd veniva massacrato a Minneapolis, 70 persone venivano ferite o ammazzate a Chicago e 80 a New York, nel solo weekend del 4 luglio. Perciò non serve battersi soltanto per le cause popolari e mediatiche, ma serve la perseveranza di affrontare un tragico problema in tutti i suoi aspetti, uno dei quali, senza dubbio, è la pessima condotta della polizia. Ma non ci si può fermare lì. Perciò dal punto di vista politico, dice Adams, questo significa solo una cosa: bisogna governare. Senza complicazioni. Ma con autentica consistenza. Con poca poesia e molta sostanza. 

  
Questo è Eric Adams, uno che parla forte e mette la pratica davanti a tutto. In una città piena di liberal bianchi molto influenti e di neri laureati e alla moda, un personaggio così pone dei problemi pratici e di partecipazione che travalicano l’attuale linguaggio della sensibilità razziale. Insomma Adams minaccia d’essere scomodo e piuttosto poco politically correct. Il che, ovviamente, è molto interessante.

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