La rimozione

“Era uno schiavista”. New York rimuove Thomas Jefferson

Francesco Corbisiero

Via dalla sala del consiglio comunale la statua del terzo presidente e padre fondatore degli Stati Uniti. In passato era stata definita un monumento “alle disgustose basi razziste su cui l’America è stata fondata”. Adesso troverà posto in un museo

Il voto favorevole, espresso all’unanimità, arriva dopo una battaglia durata vent’anni. Lunedì scorso la Public design Commission, organo chiamato a esercitare la propria supervisione sull’arredo urbano e sull’arte pubblica, si è impegnata a rimuovere entro la fine dell’anno la statua di Thomas Jefferson, terzo presidente e padre fondatore degli Stati Uniti, dalla sala del consiglio comunale della città di New York.

  

La richiesta di ricollocazione era stata recapitata dalla Commissione per la giustizia e riconciliazione razziale voluta dall’attuale sindaco Bill De Blasio e presieduta da sua moglie Charlene McCray. In passato era stata definita dal consiglio delle minoranze nere, latine e asiatiche un monumento “alle disgustose basi razziste su cui l’America è stata fondata”. Sfrattata dall’assise cittadina, adesso la statua troverà posto altrove, probabilmente alla New York City Historical Society, museo di storia americana, in un luogo più adatto a sottolineare il contesto storico della figura rappresentata, secondo i sostenitori della rimozione.

 

Le accuse alludono al possesso, da parte di Jefferson, di circa 600 schiavi nella sua piantagione in Virginia in un’epoca in cui la schiavitù non era ancora stata abolita. Il manufatto, finito di scolpire nel 1834 e presente al suo posto dal 1915, raffigura però Jefferson in tutt’altro ruolo: con una penna in mano nell’atto di firmare la Dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria, atto di nascita degli Stati Uniti. Nulla a che spartire, insomma, con la statue dei leader confederati ancora in piedi in alcuni stati del sud.

 

La scelta ha sollevato un polverone all’interno di un’opinione pubblica sempre più polarizzata. Il candidato democratico alla corsa come prossimo sindaco della città Eric Adams ha approvato la decisione, auspicando che, in vista della sostituzione, si dia spazio a personalità “edificanti e appartenenti a comunità sotto rappresentate”, mentre in un comunicato l’ex presidente Donald Trump ha attaccato la sinistra radicale, ipotizzando che in futuro lo stesso destino possa toccare anche alle statue di Benjamin Franklin, Abraham Lincoln e George Washington. 

 

Da segnalare tra le opinioni più ponderate anche l’articolo di Samuel Goldman contenuto in Common sense, newsletter creata dall’ex giornalista del New York Times Bari Weiss. "Mettere da parte queste figure storiche, per quanto problematiche possano essere, mette anche in secondo piano, o diminuisce, gli ideali che sono venuti a incarnare e i molti americani che sentono un legame profondo e duraturo con loro", scrive Goldman. "Incluso l'uomo che ha commissionato la statua [...] Uriah P. Levy, un ufficiale di marina ebreo vittima di antisemitismo nella sua carriera militare. Ha affrontato sei corti marziali, per aver combattuto duelli provocati da insulti contro la sua religione. È stato anche licenziato due volte dal servizio, solo per essere reintegrato per ordine presidenziale".

 
E ancora, conclude Goldman: "La domanda è se tutti coloro che sono implicati nella schiavitù non siano ipso facto ammissibili per la celebrazione pubblica. Non solo Jefferson, ma praticamente ogni figura importante della storia americana prima del 1861. E escluderli dal discorso pubblico non influisce solo sulla loro memoria personale. Rende anche senza parole gli altri americani, come la famiglia Levy, che hanno usato i loro nomi, parole e carriere come simboli per articolare le proprie aspirazioni alla giustizia".  

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