Black Lives Matter a Salt Lake City per la celebrazione del Juneteenth, l'abolizione della schiavitù. (AP/LaPresse) 

Critical Race Theory. Che cos'è l'ultima guerra culturale americana

Matteo Muzio

Negli Stati Uniti è in corso uno scontro nelle scuole, sui media e al Congresso sul razzismo sistemico. Cos’è questa teoria, perché è diventata popolare e come si sta svolgendo il dibattito

A volte succede che un oscuro filone di ricerca, conosciuto solo da specialisti accademici, diventi estremamente noto grazie ai suoi detrattori. Il soggetto è la Critical Race Theory (Crt), una teoria giurisprudenziale sul razzismo intrinseco delle leggi varate negli Stati Uniti, presente anche dove non è esplicito. Per usare una definizione usata dal think tank liberal Brookings Institution, il razzismo presente in leggi, procedure, regolamentazioni influisce sugli esiti dei singoli individui perché di base è intersecato in tutte le istituzioni sociali del paese, dal sistema educativo a quello giudiziario, dal mercato del lavoro alla sanità. Per farla breve, può esistere un razzismo senza razzisti. 

 

Dall’inizio del 2021, la Crt è stata citata 1.300 volte su Fox News e in 27 stati sono stati presentati dei disegni di legge per fermarne l’insegnamento nelle scuole o per vincolare l’uso di fondi statali al ritiro dai piani scolastici. Non solo: è diventata lo spauracchio dei repubblicani al pari di quello che in passato era stato il cultural marxism e la teoria del gender. Tanto che un think tank conservatore texano, il Texas Public Policy Institute, ha diffuso su Twitter un tabellone con diverse parole chiave che potrebbero segnalare l’arrivo della temibile Critical Race Theory sui banchi delle scuole dei figli di una classe media bianca preoccupata. Tra i vocaboli incriminati c’è “antirazzismo”, ma anche “equità”. Un invito dal sapore maccartista.

 

La domanda è: com’è stato possibile tutto questo? Ci sono vari passaggi da analizzare per meglio comprendere questo processo e andare alle radici della teoria. Bisogna tornare al compromesso di Atlanta, nel 1895, quando Booker T. Washington, uno dei leader della comunità afroamericana nel sud, fece un discorso di fronte a un pubblico di bianchi nel quale di fatto accettava che i neri potessero non votare in cambio della garanzia di uguali opportunità economiche. Un compromesso che un sociologo di sinistra afroamericano come W.E.B. Du Bois ritenne inaccettabile perché di fatto minava in modo irreversibile i propositi della ricostruzione post guerra civile, ovvero la piena eguaglianza, sacrificata sull’altare della riconciliazione bianca tra le due parti belligeranti. Non è un caso che la stretta di mano tra reduci della battaglia di Gettysburg, avvenuta nel 1913, nel cinquantesimo anniversario dello snodo decisivo del conflitto tra nord e sud, veda sullo sfondo un anno dove 50 afroamericani furono linciati in modo extragiudiziale con la complicità delle autorità del sud. Il risultato di quel compromesso era ben visibile, agli occhi di DuBois, che fissò il concetto nel suo saggio “The Souls of Black Folk”, pubblicato nel 1903: “Quotidianamente il nero vede sempre di più le leggi e la giustizia non come tutele protettive, ma come fonti di umiliazione e di oppressione. Le leggi sono scritte da uomini a cui interessa poco di lui e sono attuate da persone che non hanno motivo di trattare i neri con cortesia e rispetto”.

 

Su questo concetto Derrick Bell, pioniere della Critical Race Theory e primo afroamericano a diventare professore ordinario di legge ad Harvard, scrisse nel 1980 un articolo breve ma denso, “Brown v. Board of Education and the Interest Convergence Dilemma”, che rifletteva sulla sentenza della Corte Suprema Brown v. Board of Education del 1954, che dichiarò incostituzionale la segregazione nelle scuole pubbliche. Nonostante questa sentenza avesse portato a una convergenza di interessi nel breve periodo, argomentò Bell, nel lungo avrebbe prodotto per i neri scuole pubbliche di qualità inferiore a causa dei tanti ostacoli posti sulla via dell’integrazione da parte dell’establishment bianco. Non solo: anche le cause della desegregazione a suo avviso poco avevano a che fare con la volontà di migliorare la condizione degli afroamericani.  Per tre motivi. In primis, la fine della separazione tra le razze avrebbe indebolito l’appeal del comunismo nei paesi africani e latinoamericani, dove la propaganda sovietica spingeva l’immagine degli Stati Uniti come il “paese dei linciaggi e del KKK”. Secondo, il governo volle tener fede a modo suo alla promessa fatta dopo la Seconda guerra mondiale ai veterani neri sulla piena uguaglianza postbellica (e molti casi di linciaggi dimostrarono che non fu così). Infine, la segregazione avrebbe ostacolato l’industrializzazione del sud. Quest’ultimo è piuttosto debole come assunto: già prima del New Deal governatori segregazionisti come Eugene Talmadge della Georgia cercavano di attirare investimenti dal nord con la prospettiva di salari bassi e zero sindacalizzazione.

 

A ogni modo, il succo della Critical Race Theory, che aveva origine nel settore legale nel quale operava il professor Bell, fu messo nero su bianco l’8 luglio 1989 a Madison, in Wisconsin, al primo convegno dedicato a questo filone di ricerca accademico. Venti studiosi convennero che la legislazione promossa dalle amministrazioni democratiche di John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson da un lato affrontava con successo gli atteggiamenti razzisti più scoperti ed evidenti, dall’altro invece lasciava intatti tutti quegli aspetti più sottili e nascosti del razzismo americano. Che definivano con un aggettivo che sarebbe diventato celebre: sistemico.

 

Così questa teoria è nata e si è sviluppata dal punto di vista accademico. Ma come è diventata così popolare?  Nel 2019 il New York Times lancia un ambizioso progetto giornalistico, “The 1619 Project”, ideato dalla giornalista Nikole Hannah-Jones, che si propone di rileggere la storia americana dal punto di vista degli schiavi e dei loro discendenti. La data del titolo è un riferimento all’anno dell’arrivo dei primi africani in Virginia. Se da un lato il progetto rimette al centro un tema spesso negletto dalla storiografia, dall’altro ha numerosi punti deboli. Non è vero, ad esempio, quanto si afferma riguardo alla rivoluzione americana, ovvero che la causa scatenante fu la difesa della schiavitù. Viene ignorato l’abolizionismo radicale di alcuni Padri Fondatori del New England, tra cui il secondo presidente John Adams. Tanto da ricevere anche critiche da sinistra: lo storico Gordon Wood, intervistato dal portale di sinistra radicale World Socialist Web Site, afferma che nemmeno un singolo colono che ha combattuto con l’esercito di George Washington ha mai citato la schiavitù come motivo della sua lotta. Non solo: l’abolizionismo negli anni ’70 del Settecento era praticamente inesistente in Gran Bretagna. Altre criticità riguardano la figura di Abraham Lincoln, che viene messa in cattiva luce con alcune citazioni fuori contesto estrapolate dal suo dibattito con il senatore democratico Stephen Douglas nel 1858, come la sua contrarietà al matrimonio interrazziale e al voto per i neri liberi. La sua ideologia fu in continua evoluzione, come evidenziato dallo storico marxista Eric Foner nella sua biografia del sedicesimo presidente intitolata “The Fiery Trial”, dove si racconta che poco prima di morire Lincoln fosse giunto alla conclusione che solo l’uguaglianza totale di fronte alla legge era l’unico obiettivo possibile per il dopoguerra. Un altro aspetto problematico ignorato è il mancato allargamento del voto alle donne nel corso della Ricostruzione post bellica: non fu accettato dalla nuova leadership della comunità nera perché gli ex schiavi volevano godere appieno dei diritti patriarcali dei loro ex padroni bianchi.

 

Nonostante queste criticità, molti saggi racchiusi nel progetto sono di grande valore ed evidenziano come il razzismo sistemico abbia portato alla fuga dei bianchi verso i sobborghi per non dover convivere troppo con gli afroamericani ormai liberati dal pregiudizio, come nel caso di Detroit a partire dagli anni ’70. Non è difficile vedere come gli spunti offerti dalla Crt siano stati abbondantemente colti nel forgiare questo ambizioso progetto multimediale, che comprende anche video e immagini. In collaborazione con il Pulitzer Center, il 1619 Project è stato suddiviso in diversi materiali disponibili per tutti i livelli scolastici, dai 6 fino ai 19 anni, per la libera consultazione da parte degli studenti ma anche per essere utilizzato dagli insegnanti.

 

A questo punto entra in scena il catalizzatore dell’improvvisa popolarità della Crt tra i suoi oppositori, il giornalista conservatore Christopher Rufo, collaboratore del think tank di centrodestra Manhattan Institute. Grazie alla segnalazione da parte un dipendente della città di Seattle, Rufo entra in possesso di alcune slide su un corso di aggiornamento sull’inclusività che parlava di “supremazia bianca interiorizzata” legata a concetti come “perfezionismo” e “individualismo”. Rufo comincia una ricerca attraverso le note poste sotto le immagini, che rimandano a bestseller antirazzisti come “White Fragility” di Robin DiAngelo. Rufo unisce i puntini e trova un pensiero di base anche in altri documenti simili ottenuti da altre fonti in tutto il paese: tutto è riconducibile alla Critical Race Theory e, facendo un salto concettuale, si arriva ad Angela Davis, ex fondatrice delle Black Panthers. Quest’ultima ottenne un dottorato alla Università Humboldt di Berlino est, con Herbert Marcuse come supervisore. Bingo.

 

Ecco trovato il legame con un vecchio nemico dell’America, il padre nobile della New Left degli anni ’70. Grazie ad alcune deduzioni quindi Rufo avrebbe realizzato che la Critical Race Theory è il vecchio marxismo sotto nuove spoglie. Magari tralasciando che, oltre a essere stato uno dei padri nobili del neomarxismo, Marcuse aveva lavorato per l’Oss, l’antenato della Cia, poi al dipartimento di stato per combattere prima la propaganda nazista e poi quella sovietica in un periodo compreso tra il 1943 e il 1950. Ecco che quindi secondo Rufo si è trovato la radice maligna di un nemico perfetto come la Crt verso cui indirizzare la lotta dell’attivismo repubblicano. Lo ha dichiarato pubblicamente sul New Yorker: “Politically correct è un termine datato. Cancel culture è vacuo, mentre woke si può facilmente ignorare. L’Antagonista Perfetto è la Critical Race Theory”. 

 

Infatti, il 2 settembre 2020, dopo un’ospitata al programma serale di Tucker Carlson su Fox News, una delle voci più ascoltate della galassia ultratrumpiana, viene contattato da Mark Meadows, capo di gabinetto di Donald Trump. Obiettivo: scrivere un ordine esecutivo che cancelli del tutto l’insegnamento della Crt ai dipendenti del governo federale. Pazienza se un giudice distrettuale lo scorso 23 dicembre ha bloccato il decreto trumpiano perché violava in modo palese il Primo emendamento.  Se il governo federale non si è più mosso in questo senso per ovvie ragioni, lo stesso non si può dire dei singoli stati. Il procuratore generale dell’Indiana Todd Rokita ha firmato una lettera insieme ai suoi colleghi di 19 stati per chiedere al dipartimento federale per l’Istruzione il divieto dell’insegnamento della Critical Race Theory perché “distorce, anziché illuminare” gli studenti. In cinque stati, Florida, Idaho, Iowa, Oklahoma e Tennessee, questo sforzo è andato a buon fine: in Tennessee non c’è un divieto esplicito, ma una ben più efficace minaccia di riduzione dei fondi statali. In quasi ogni provvedimento legislativo, anche in quelli bocciati o fermi nelle varie commissioni, ricorrono le parole “radicale” e “divisivo”. Se sul primo ci sono pochi dubbi, date le evidenti venature marxiste della Crt (senza scomodare improbabili discendenze da Angela Davis e Marcuse), sul secondo viene da sorridere se si pensa che nei primi anni di presidenza di Donald Trump si chiedeva a gran voce il “free speech” nei campus universitari per ospitare oratori conservatori come il blogger dell’alt right Milo Yiannopoulos o il leader degli studenti pro Trump Charlie Kirk, il cui tono era tutt’altro che conciliante.

 

Andando ancora un po’ indietro nel tempo si registravano sforzi sempre da parte repubblicana per inserire nei curriculum scolastici statali le teorie pseudoscientifiche sull’evoluzione delle specie viventi definite collettivamente come “disegno intelligente”. Altri stati invece hanno imboccato la direzione opposta: il consiglio del dipartimento dell’Istruzione californiana ha approvato lo scorso marzo all’unanimità l’istituzione di un corso di studi etnici a livello liceale, in Delaware i legislatori hanno approvato l’allargamento del corso di studi afroamericani ad altri indirizzi che non riguardino esclusivamente le scienze sociali, mentre il governatore dem dello stato di Washington Jay Inslee ha firmato una legge il 5 maggio per “smantellare il razzismo sistemico nelle scuole pubbliche” inserendo diversi obblighi formativi per gli insegnanti e per sviluppare “l’equità, la competenza culturale e gli standard di inclusione”. Proprio quei concetti che hanno fatto imbestialire i repubblicani e che vengono indicati sia da Christopher Rufo sia dal Texas Institute for Public Policy come “radicalmente nocivi e antiamericani”. 

 

Si segnala uno stato repubblicano in controtendenza: il Wyoming dal prossimo anno scolastico avrà un corso di storia indigena approvato nel 2017 dall’allora governatore Matt Mead. Anche il Montana ha da tempo un corso obbligatorio simile. Quindi perché puntare soltanto sulla mera censura? Una società di comunicazione politica californiana degli anni ’50, la Whitaker & Baxter, molto vicina ai repubblicani, aveva tra i suoi slogan “Non puoi battere qualcosa con niente”. Questa sembra però la via scelta in 27 stati dove sono stati introdotti provvedimenti per bloccare questo tipo di insegnamenti nelle scuole. In passato anche altre tendenze minoritarie come gli studi di genere erano diventate lo spauracchio usato da alcuni commentatori conservatori.

 

Lo scorso 23 giugno, durante un’audizione presso la commissione Forze armate della Camera dei rappresentanti, il generale Mark Milley ha affermato che la sua lettura di Marx e Lenin non ha fatto di lui un comunista, difendendo quindi lo studio della Crt presso le forze armate di fronte al deputato ultratrumpiano Matt Gaetz. Il quale, ironia della sorte, avrebbe votato il 29 giugno per mantenere le statue di alcuni esponenti politici confederati dentro il Campidoglio per non “rimuovere” la storia. Questa guerra culturale ci dice molto su un Partito repubblicano in crisi di proposte, ridotto a essere il megafono del risentimento bianco. In altre epoche, avrebbe avuto molti argomenti con cui controbattere a un filone universitario di matrice marxista. Senza usare il cancellino.