(foto EPA)

il prezzo della sconfitta

Capiremo le conseguenze del ritiro da Kabul quando sarà tardi

Giuliano Ferrara

Biden scommette sulla resistenza contro i talebani. Ma nessuno ci crede davvero

Se non ce l’hanno fatta gli inglesi sconfitti nel Grande gioco, intrappolati nelle insidie afghane per quasi due secoli a partire dal Settecento, beffati e trucidati nella nuvola di menzogne e agguati dagli emiri di dinastie avverse; se non ce l’hanno fatta i sovietici dell’Armata rossa, finiti in una rotta che fu preludio alla caduta del sistema: perché mai avrebbero dovuto farcela gli americani e la coalizione internazionale formatasi dopo l’11 settembre del 2001? Questa è la spiegazione più semplice, andante, spiccia: in Afghanistan, contro il tribalismo orgoglioso e la fede e la ferocia montanara, gli imperi non ce la fanno

Osserviamo in un fremito di orrore come vengono schiacciati velocemente e violentemente gli scampoli di civilizzazione (elezioni, promozione della libertà femminile, istruzione, musica) che furono introdotti all’inizio dell’ultimo ciclo bellico a Kabul, a Kandahar, a Kunduz, a Herat dal più potente esercito del mondo e dalla coalizione occidentale dei suoi alleati. Dopo due decenni di incerta, stanca, dominazione occidentale, ecco che tutto procede speditamente. Di quattro presidenti americani, solo la metà di George W. Bush ha fatto la scommessa impossibile sulla riscrittura delle regole nel mondo in nome delle libertà civili e contro la logica di guerra oppressione e terrorismo, per il resto è stata una lunga attesa della finale dismissione di responsabilità, una resa a rate che secondo i pessimisti potrebbe ora volgere in una nuova fuga verso la sconfitta totale, una Saigon numero due a Kabul. Non è stata replicata nemmeno l’operazione David Petraeus, il surge capace di ristabilire un minimo equilibrio nei rapporti di forza. Questione di tempo, dicono. Nulla di serio è stato negoziato né era umanamente negoziabile, le forze autoctone formate a difesa di un ordine che non sia il ritorno del potere talebano sono insufficienti, poco motivate, intimidite. 

 

Eppure la posta in gioco non era mai stata così alta. Non una arcigna dominazione coloniale, come nel caso degli inglesi; non una sovietizzazione, come al momento dell’arrivo dei russi nel 1979. La guerra era nata dalla necessità di svellere la struttura terroristica ospitata dai talebani, ciò che in un primo tempo fu realizzato e portò dopo un decennio alla cattura di Osama bin Laden, e si era aggiunta, dopo anni di compromessi e alleanze impure con la guerriglia antisovietica, la volontà di sperimentare nel luogo più foscamente ostile il progetto di una democratizzazione e liberazione di una parte di mondo consegnata agli incubi emersi con gli attentati jihadisti, fino all’11 settembre del 2001 e alla rovinosa caduta delle Torri. Nessuno perseguiva, nella coalizione occidentale, lo scopo della sostituzione di sovranità, i “volenterosi” lavoravano per un potere autoctono fondato su altro che non fosse la sharia, la teocrazia mortifera del regime dei mullah Omar e simili. Vent’anni dopo la fatale nascita della Repubblica islamica a Teheran, e all’indomani di decenni di terrorismo antioccidentale e di terrore islamista, in Afghanistan fu tentata una risposta strategica.  

 

In Iraq la ritirata mise capo alla strage infinita siriana e allo stato califfale con i suoi orrori. Che succederà ora in quel crocevia della lotta per la civilizzazione del mondo? Il presidente americano Biden ha tratto le conclusioni finali della lunga stagione di resa, della quale era un alfiere dai tempi della presidenza Obama, e sostiene che non sia impossibile ritirare le truppe definitivamente e aspettarsi una resistenza al ritorno dei talebani. Ma non ci crede nemmeno lui, non ci credono i capi del Pentagono. Noi dobbiamo credere purtroppo alle conseguenze che si intuiscono del grande voltafaccia strategico: il terrore si riprenderà un lembo dell’oriente, una stazione leggendaria della Via della seta, e dovremo solo contare gli anni prima che quel cancro si riproduca in metastasi. Dopo le vendette e le repressioni in loco, i ricaschi della sconfitta ci riguarderanno direttamente quando sarà troppo tardi. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.