Un horror internazionale a puntate

Collasso afghano, episodio terzo: tutti in fuga verso l'Europa

Daniele Raineri

Biden scommette che i soldati afghani terranno le posizioni, ma un’onda migratoria di atterriti parte verso ovest

Prologo. Dopo uno spaventoso attacco terroristico che uccide migliaia di persone nel settembre 2001, il governo americano invade l’Afghanistan e disperde i terroristi. Il piano ambizioso è sostituire la dittatura dei fanatici talebani, l’Emirato, con una forma moderna di stato. Ma i talebani non spariscono e portano avanti una guerriglia a bassa intensità in nome dell’Emirato. “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, dicono. Nel 2009 il presidente Barack Obama è chiamato a decidere se continuare oppure no le operazioni militari in Afghanistan. Da una parte il suo vice, Joe Biden, gli consiglia di ritirare le truppe. “Non possiamo cambiare quel paese”. Dall’altra i generali insistono: dacci più soldati e possiamo battere i talebani. Obama ascolta i generali. Undici anni dopo Biden diventa presidente. Ordina il ritiro senza condizioni, che era stato ordinato anche dal suo predecessore Donald Trump. I talebani avanzano. 

 

Giovedì il presidente americano Biden ha difeso in pubblico il ritiro senza condizioni dall’Afghanistan. Quanti anni avremmo dovuto restare? E quante vite di giovani americani avremmo dovuto mettere a rischio?, ha chiesto. In realtà gli americani non avevano più ruoli da combattimento da molti anni, si occupavano soltanto del supporto aereo e della raccolta di intelligence. In pratica tremila uomini chiusi nelle loro guarnigioni facevano da tappo all’avanzata talebana e rassicuravano l’esercito afghano. Poi il presidente ha detto che la probabilità che i talebani prendano Kabul è molto scarsa e che ha fiducia nelle capacità dell’esercito afghano. Ha anche detto che l’America evacuerà con un ponte aereo migliaia di afghani che hanno lavorato per i soldati americani assieme alle loro famiglie e porterà tutti in salvo in qualche paese terzo che ospita basi degli Stati Uniti, perché concedere loro visti per gli Stati Uniti è difficile in così poco tempo. E’ la grande contraddizione del ritiro dall’Afghanistan: si dice nello stesso discorso che i talebani non possono vincere e si garantisce che gli interpreti e gli altri afghani che hanno lavorato per i contingenti occidentali saranno portati in salvo.

 

Giovedì Reuters ha scritto che gli americani potrebbero annunciare presto che porteranno fuori dal paese altre persone a rischio, come per esempio le afghane che lavorano nelle ong per i diritti delle donne – ma è tutto ancora vago. Le dichiarazioni di Washington in questo periodo riguardanti l’Afghanistan sono confuse. Il 25 giugno il segretario di Stato, Antony Blinken, ha detto che gli Stati Uniti stanno valutando se i talebani sono seri a proposito dei negoziati di pace. La valutazione è tardiva, considerato che i talebani non hanno mai ucciso così tanti soldati del governo come negli ultimi due mesi e che conquistano nuovi distretti ogni giorno. Due giorni fa un portavoce del dipartimento di stato ha detto che i talebani sanno che la diplomazia è l’unica strada per la legittimità. Lo sanno? L’Emirato emana già direttive sull’amministrazione del paese “dopo l’indipendenza”, che vuol dire: dopo che avremo preso le città. 

 

Un problema è che molti afghani che non facevano gli interpreti ma non vogliono finire sotto i talebani tenteranno anche loro la fuga. David Mansfield, uno specialista che segue quello che succede sul confine occidentale del paese, dice che ad aprile 200 veicoli partivano ogni giorno con più di quattromila migranti a bordo e che adesso partono 300 veicoli al giorno con più di seimila migranti a bordo – e molti sono afghani che lavoravano nell’esercito o per il governo. La loro rotta porta verso l’Europa e non è un problema dell’Amministrazione Biden. 

 


La prima puntata di Collasso afghano la trovate qui.

Qui invece la seconda. 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)