Una ragazza porta una bandiera americana durante la parata del 4 luglio dell'anno scorso a Washington (foto Reuters)

Ti amo davvero, America

Paola Peduzzi

Un viaggio #nofilter nelle ferite statunitensi alla ricerca di conferme su questa nazione speciale

Ma tu l’ami per davvero, l’America? Non so quante volte ho posto questa domanda – stupida e ingenua come tutte le domande sugli amori importanti – negli ultimi anni, anzi a partire da un momento preciso: l’elezione di Donald Trump nel novembre del 2016. Quella notte, mentre compariva sul palco allestito all’Hotel Hilton la famiglia Trump a festeggiare la vittoria, sorpresa quanto e più di me che avevo appuntamenti vari alla festa di Hillary Clinton che non mi ero preoccupata nemmeno di disdire, ho pensato che amare l’America da quel momento in poi sarebbe stato doloroso, e chissà se necessario. Così ho iniziato a ripetere la mia domanda stupida, appigliandomi alle dichiarazioni d’amore che ricevevo, contestando quelle di disamore, imponendomi di andare oltre le semplificazioni e cercando di capire se quell’amore era frutto di un abbaglio ideologico-sentimentale che mi aveva impedito di vedere la natura vera dell’America e la sua trasformazione. Ho anche letto tonnellate di articoli e saggi che non soltanto spiegavano Trump e il trumpismo ma raccontavano cambiamenti che il mio filoamericanismo cocciuto mi aveva fatto sottostimare o ignorare. Confesso che ero convinta che ci saremmo trovati pronti e preparati in questo 2020 rotondo di elezioni americane, dopo tutti questi mesi, anni, di domande stupide e di riflessioni. Pensavo addirittura che l’anomalia chiamata Donald Trump sarebbe stata governata e indirizzata – c’è chi diceva espulsa, ma a tanto non sono mai arrivata – e che i quattro anni più pazzi del mondo sarebbero diventati col tempo aneddoti o note in fondo alla storia che nessuno legge mai. Pensavo che avremmo trovato l’antidoto per raddrizzare questo mondo a testa in giù, l’America capovolta che ha mostrato una faccia irriconoscibile e che pure mi sono sforzata di continuare ad amare, perché poi la sfida di noi che americani non siamo è tutta qui, in quest’amore diventato a tratti impossibile. 


“Questa è l’America” di Francesco Costa è il racconto degli strappi del tessuto sociale, culturale e politico del paese, senza filtri


 

Invece cominciano le primarie democratiche – tra dieci giorni, in Iowa – con la loro lotta fratricida ineluttabile eppur violentissima e c’è un impeachment al Senato che nessuno segue e nessuno guarda perché sappiamo già come va a finire (ma in quell’aula si sta raccontando un altro pezzo d’America, distrarsi significa per l’ennesima volta non voler capire). La possibilità che Trump sia rieletto è concreta, ma non è ancora risolto l’enigma di questo presidente, se lui rappresenta un’America che non conosciamo perché siamo turisti delle coste votati a un ideale lontanissimo dalla realtà o se invece Trump è quanto di più antiamericano il popolo americano sia riuscito a spedire alla Casa Bianca, prodotto difettoso di una nazione che ha giocato un po’ troppo con le proprie paure. Il trumpismo ha reso necessaria la domanda sull’amore perché ne contiene altre che hanno a che fare con i sistemi democratici di tutto l’occidente, con i paesi che esercitano una leadership nel mondo (o smettono di farlo), con un ordine che è stato plasmato nel secolo scorso proprio su impulso dell’America. Ecco perché il disamore, quando e se c’è, fa male.

 

L’ultima volta che ho chiesto “ma tu l’ami per davvero, l’America?” è stato qualche giorno fa, dopo aver letto “Questa è l’America” di Francesco Costa (edito da Mondadori, in libreria dal 28 gennaio). Costa, vicedirettore del Post e autore di una newsletter-podcast sull’America molto seguita, racconta nel suo libro tante ferite dell’America. Inizia con il “catalogo della disperazione” delle 800 mila persone che dal 1991 al 2018 sono morte negli Stati Uniti per overdose, “soltanto nel 2017 sono state 70.237 (…), centonovanta ogni giorno, otto per ogni ora, una ogni sette minuti (…) più di tutti i soldati caduti in Vietnam, Iraq e Afghanistan messi insieme”. Il ritratto di questa epidemia è sconcertante, ma non è niente rispetto alla denuncia contestuale di “quello che pensiamo di sapere” sull’America, dell’adattamento che facciamo al contesto statunitense del “nostro tifo politico locale”. Non siamo capaci di fare una fotografia naturale dell’America, dobbiamo aggiungere per forza dei filtri – mostrificanti o con i cuoricini, a seconda – perché vogliamo piegare la realtà alle nostre idee. Scegliendo la strada #nofilter, Costa procede nel suo viaggio americano, portandoci nel pascolo di Cliven Bundy in Nevada e un attimo dopo a Waco, in Texas, facendo un salto temporale ampio ma corto dal punto di vista culturale, per spiegare l’avversione viscerale degli americani nei confronti dell’invadenza – o percepita come tale – dell’autorità centrale, cioè dello stato. Da lì in poi, ogni tappa è una ferita, c’è quella sulle armi, quella sul razzismo, c’è soprattutto il caso dell’acqua contaminata di Flint che è talmente enorme da contenere tutti insieme tutti gli strappi del tessuto sociale americano. 


Il sistema politico si è inceppato a metà degli anni Novanta dopo aver tradito il patto istituzionale fondato sul negoziato e il compromesso


 

Il viaggio di “Questa è l’America” mi ha ricordato quello che ha fatto Chris Arnade, raccontato in un libro pubblicato l’estate scorsa che si intitola “Dignity”. Arnade lavorava a Wall Street ma a un certo punto ha deciso di vedere di persona “i posti dove tutti mi dicevano di non andare”. Ha percorso 250 mila chilometri: per due anni si muoveva nel fine settimana, poi ha lasciato il suo lavoro a Wall Street per viaggiare a tempo pieno. In una cittadina del Missouri, alcuni ragazzi hanno accolto Arnade, la sua telecamera e la sua macchina fotografica dicendo: “Sei venuto anche tu qui per scrivere del christal meth?”, consapevoli di essere la rappresentazione fisica di una ferita nazionale. Arnade ha scoperto che quelli come lui erano trattati come i cultori del “poverty porn”, narratori della pornografia della povertà, ed è per questo che ha deciso di cercare altro: la dignità che dà il titolo al libro. L’ha trovata entrando in ottocento McDonald’s in tutto il paese, “un posto che mi sono sempre sentito in imbarazzo a frequentare” e che poi è diventato un test per capire la natura dei suoi interlocutori, perché in molte parti dell’America, McDonald’s è il sostituto (parzialissimo ovviamente) di un welfare striminzito.

 

Il ruolo dello stato, la capacità della politica di interpretare il disagio nazionale rappresentano oggi un’altra ferita dell’America. Secondo molti, si è interrotto un patto istituzionale storico fondato sul dialogo, il negoziato, il compromesso. Se si toglie questa capacità di sintesi della politica, le ferite della società – le ferite culturali – non cicatrizzano facilmente: anzi, l’indignazione perpetua, epidemia questa sì molto recente, finisce per far colare sangue ovunque. George Packer, giornalista e saggista tra i più rinomati negli Stati Uniti, ha scritto un libro sulla storia recente americana, “The Unwinding”, uscito nel 2013, che inizia come un racconto horror: “Nessuno può dire quando il disfacimento è cominciato, quando la spirale che ha tenuto insieme gli americani con la sua presa stretta e a tratti soffocante ha ceduto per la prima volta”. Il libro di Packer – che è molto doloroso, senza anestesia – è considerato tra le letture imprescindibili per comprendere la trasformazione dell’America, e il fatto che sia stato pubblicato tre anni prima dell’elezione di Trump lo rende ancora più lucido e colpevolizzante: non abbiamo visto, non abbiamo capito. Packer sostiene che chi è nato in America dopo il 1960 ha assistito a un lento ma costante disfacimento delle proprie certezze – anche fisico con lo spopolamento di aree che a lungo sono state il simbolo dell’effervescenza americana – e la politica ha assorbito questo cambiamento nel momento stesso in cui ha smesso di guardare il paese e ha cominciato a dedicarsi alla battaglia nel palazzo. Quel momento ha un nome, è quello di Newt Gingrich, speaker della Camera dal 1995 al 1999, regista della “rivoluzione” che portò il Partito repubblicano a riprendersi il Congresso dopo quarant’anni di dominio democratico. Il “contratto con l’America” che ha reso celebre Gingrich sancisce, secondo Packer, la fine del dialogo istituzionale, il tradimento ultimo dello spirito bipartisan su cui si fonda la democrazia americana. 


Resiste il dubbio che Trump non rappresenti un paese che non abbiamo voluto capire ma che sia un presidente antiamericano


 

 

Anche Costa individua nell’ascesa di Gingrich un cambiamento radicale della politica americana: “Invece che sperare di aumentare lentamente il loro potere contrattuale in modo da ottenere compromessi più vicine alle istanze dei loro elettori – scrive Costa sintetizzando il progetto di Gingrich – avrebbero dovuto sabotarli, i compromessi. Intralciare le trattative. Seminare zizzania tra chi dialoga. Tendere trappole per aumentare la sfiducia reciproca. Cogliere ogni occasione per piegare le regole del gioco a proprio vantaggio. Sfruttare i media per alzare il livello dello scontro dialettico”. Il Congresso “litigioso e sgradevole” diventa lo specchio di una politica che s’inceppa di continuo, che rallenta i processi di riforma, che rinuncia al suo ruolo – “scolpito nella pietra” – di garante del funzionamento della democrazia americana. Costa arriva fino ai giorni nostri mettendo in fila tutte le storture del sistema americano, dalla possibilità di ridisegnare i confini delle circoscrizioni elettorali creando forme geometriche astruse ma funzionali a questo o quell’altro partito fino ai soldi in politica, con i Pac e i SuperPac di cui sentiamo parlare dal 2010 e che ora che siamo di nuovo in campagna elettorale torneranno ad attirare la nostra attenzione e la nostra indignazione. 


Una domanda ripetuta per anni, alcune risposte (anche nei libri) viziate da presunzioni ideologico-sentimentali 


Inevitabilmente, dopo aver letto “Questa è l’America”, ho posto a Costa la mia stupida domanda: ma tu l’ami per davvero, l’America? “Mi sono accorto mentre scrivevo – ha risposto – che il libro avrebbe girato attorno alle cose che non funzionano per spiegare perché l’America sta attraversando un momento particolare ed è a un bivio. Per me la questione va anche oltre Trump: se fosse solo lui, si potrebbe rispondere che ha preso 60 milioni di voti su 300 milioni di persone, per dire. Non credo che l’America sia diventata trumpiana più di quanto in parte non lo sia sempre stata, e se lo è diventata, non è niente che non possa passare, visto che ha anche smesso di essere obamiana”. Ma quindi, l’amore per l’America? “A me gli americani piacciono per il loro essere senza passato, senza storia nel senso secolare e millenario del termine. Sono ambiziosi, incoscienti, ottimisti. Nel dubbio fanno le cose e le fanno grandi (anche nei guai), ma noi nel dubbio non le facciamo e se proprio dobbiamo, le facciamo piccole. Alle brutte poi gli americani raccolgono i cocci, perché tutto questo avviene in un posto con una responsabilità individuale fortissima, persino crudele”. Gli americani, “che non conoscono il nostro cinismo”, non si rassegnano, mettono in moto l’ingegno per salvarsi e “storicamente, alla lunga ci riescono”.

 

Le elezioni del 2020 ci diranno da che parte ha deciso di svoltare l’America, una volta arrivata al bivio, dove vede la propria salvezza. Come spesso accade quando si è di fronte a questo tipo di scelta, molto dipenderà dall’alternativa che i democratici offriranno al trumpismo. Per quanto la stragrande maggioranza della letteratura sulle ferite americane sostenga che Trump sia al contempo lo sfogo e il rappresentante di una parte prevalente dell’America, il dubbio che invece sia il contrario, il presidente anti americano, resiste. Non perché siamo condizionati dai filtri dell’ideologia o del sentimento, ma perché Trump costruisce il suo consenso sulla paura e sulla rabbia, ponendosi come l’unico in grado di combatterla, facendo propri approcci e politiche che sono all’opposto dello spirito fondativo dell’America che è quello di andare a scoprire che cosa c’è un po’ più in là, e fargli posto. L’America è coraggio, esplorazione, curiosità, se la riduci al diritto di avere paura e di essere arrabbiato – anche il candidato democratico Bernie Sanders ha appena girato un video elettorale in cui dice: fate bene a essere arrabbiati – perdi la sua grandezza, la sua unicità, la nazione speciale sognata da Lincoln. La paura non è l’America, e se la ami per davvero, filtri o non filtri, questo lo sai.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi