John Kerry (foto LaPresse)

Le parole dell'ex candidato Kerry fanno tremare i democratici

Luciana Grosso

Tra gli elettori dems dell’Iowa dove ancora brucia il ricordo del 2016 e si pensa a quale “blue” prevarrà alla fine della corsa

Des Moines, Iowa. “It takes a village” dicono in America. E’ un’espressione che rende l’idea della fatica, dell’impegno, della costanza che servono per raggiungere un obiettivo. “It takes a village”, ci vuole un villaggio intero, che lavori insieme e che non molli mai. 

 

Per i democratici americani che vogliono arrivare a una nomination unica, condivisa, corale, per sconfiggere Trump, sì: ci vuole un villaggio intero. Perché se è vero che Trump è uno dei presidenti più impopolari di sempre, sconfiggerlo non sarà cosa da poco e, anzi, anche solo arrivare alla nomina di un candidato che possa tenergli testa sembra essere una faccenda complicata. Come ha detto Joe Biden “sarà lunga”. Forse Biden lo ha detto per tenere su il morale delle truppe, nel caso in Iowa e New Hampshire fosse andata male, ma forse lo ha detto perché è e sarà vero. La corsa delle primarie democratiche sarà lunga perché non c’è solo da vincere una nomination e correre (possibilmente vincendo) per le presidenziali del prossimo novembre. C’è prima ancora da fare una cosa molto più difficile. Riunificare un partito a brandelli.

 

 

E non è facile. Non è facile prendere gruppi di persone che si sono guardate in cagnesco per quattro anni e dire loro “ok, ora lottiamo insieme contro un nemico comune”. Non funziona in Game of Thrones, figurati se funziona nella realtà. I democratici non si sono mai ripresi dalla notte del primo febbraio di quattro anni fa, quando, proprio ai caucus dell’Iowa, Hillary Clinton vinse di soli 0,3 punti percentuali su Bernie Sanders: 49,8 a 49,5. Poteva essere una cosa da niente. Un incidente di percorso da dimenticare in fretta e passare oltre. Invece no: fu l’inizio della fine. Da quattro anni le due ali del partito si incolpano a vicenda di essere i diretti responsabili della vittoria di Trump: gli uni dicono agli altri di essersi intestarditi su Hillary e, così, di aver consegnato il paese a Trump; gli altri dicono agli uni di aver apertamente boicottato, per tigna e ripicca, Hillary, e così facendo di aver scortato in carrozza Trump alla Casa Bianca. Quale delle due versioni sia vera non lo sapremo mai. Probabilmente non lo è nessuna delle due. Ma da lì, dal caucus del 2016, da quella sconvolgente sconfitta alle presidenziali, i democratici non si sono mai più riappacificati. La loro frattura, dapprima piccola, si è fatta mese dopo mese sempre più profonda e ampia e, oggi, li divide tra i sostenitori dell’establishment (cui piace soprattutto la forza tranquilla di Joe Biden) e i sostenitori del “Bern”, il soffio rivoluzionario di Sanders.

 

Per questo dice Biden “sarà lunga”, perché il problema non è l’Iowa, e il problema non è neppure vincere la nomination. Il problema è e sarà sempre più legittimarsi agli occhi dei sostenitori dei “colleghi di partito” che saranno via via eliminati. Un sostenitore di Bernie Sanders sarà disposto a votare per Elizabeth Warren o Pete Buttigieg? E uno di Buttigieg o Amy Klobuchar, voterà mai per Sanders? A parole, tutti i sostenitori incontrati fuori dagli incontri pubblici con i candidati, dicono che il problema numero uno è Trump e che sono pronti a “votare chiunque: no matter who, but blue”, ci dicono. Trump è un ottimo magnete di ostilità e, davvero, i democratici farebbero di tutto per toglierselo di torno. Ma fino ad allora, prima dell’“Anybody but Trump”, nelle stanze della dirigenza democratica potrebbe girare l’ordine di “Anybody but Sanders”.

 

 

E’ di poche ore fa, per esempio, la notizia, poi subito smentita, che John Kerry, chiacchierando con un reporter dell’Nbc in un hotel di Des Moines avrebbe detto: “Una vittoria di Sanders distruggerebbe il partito. Sono pronto a candidarmi io stesso per fermarlo”. Poi Kerry ha subito ritrattato, ma ormai il danno era fatto. Intanto, dalla costa est del paese, Alexandria Ocasio-Cortez, la superstar del fronte pro Sanders, lancia un appello all’unità che è anche un mezzo avvertimento: “Noi sosterremo chiunque vinca la nomination – ha detto a Time – E mi auguro di cuore che la stessa cosa faranno gli altri, se alla fine, dovesse spuntarla Bernie”. “Noi” e “gli altri” dice la deputata, scandendo bene. Perché i conti si fanno alla fine e intanto ci si conta nelle urne delle primarie, dove tutto fa male e non ricompone nulla.