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Senza l'Europa c'è la barbarie

Massimiliano Smeriglio*

Democrazia decidente, protezionismo etico, partecipazione. Le sfide da affrontare per evitare che gli autoritarismi prevalgano

Se vogliamo continuare a credere nella dimensione democratica, per quanto imperfetta, dobbiamo partire dal gigantesco sommovimento geopolitico che attraversa il pianeta. La crisi sistemica, economica, sociale, ambientale, persino antropologica, ci ricorda che la democrazia è una delle forme che ha regolato i rapporti sociali nel corso dei secoli, non l’unica e neanche la più longeva. Ha rappresentato pagine straordinarie di autogoverno nella storia lunga dell’umanità, tuttavia somiglia più all’eccezione che alla regola. Oggi le Costituzioni fondate sul compromesso tra capitale e lavoro stanno saltando per aria nel caos del nuovo disordine mondiale multipolare. In questo contesto le nuove potenze mondiali autoritarie ed aggressive avanzano sul piano economico, culturale e militare.

 

Nessuna enfasi sulla democrazia rappresentativa come dimensione statica, fredda, impersonale. Piuttosto può vivere in essa una capacità processuale che trasforma, movimenta, la rende viva tra i vivi. Il tema non è la tecnica di governo, le procedure amministrative, bensì la capacità della democrazia di esistere come architettura costituente capace di far crescere la dimensione dell’inclusione, avvicinare i cittadini all’idem sentire de repubblica, a ciò che è comune. La democrazia è lo stato di diritto, la Costituzione, la divisione dei poteri. Oggi questo impianto è dentro una crisi senza precedenti. Ma quello che potrebbe venire dopo l’epoca delle democrazie progressive fa paura: una stretta autoritaria, post democratica capace di offrire ai cittadini capacità di arricchimento individuale, ma non la libera espressione della dimensione umana. Protagonisti di questa rivoluzione reazionaria le grandi corporation che sfuggono a qualsivoglia relazione con la dimensione pubblica, dando le carte su big data, privacy, impronta ecologica e web tax, le organizzazioni a-democratiche e appunto le potenze autoritarie. Ciò che svanisce del tutto è il rapporto con la sovranità popolare, consapevole, partecipata; l’idea stessa di cittadinanza organizzata capace di rimuovere le disuguaglianze e promuovere le libertà individuali.

 

L’affermarsi su scala globale di ideologie nazionaliste, razziste, spinte dal favore popolare inquieta. Dalla Cina alla Russia, dall’India agli Stati Uniti, dalla Turchia all’Iran, dalla Polonia all’Ungheria, dalla Brexit al sovranismo all’italiana il vento autoritario soffia forte. Siamo di fronte alla crisi drammatica del modello occidentale, della sua capacità egemonica travolto dalla dittatura dell’economia e del liberismo globalizzato. Questa crisi ha prodotto nuove povertà, rinculi identitari, spinte arcaiche, pulsioni etniche. Da qui la paura, la ferocia e la voglia di protezione, con i social, in maniera non ingenua, ad accendere il fuoco del rancore che consuma ogni cosa, persino chi lo alimenta.

 

Lo snodo che dobbiamo affrontare è quello che Romano Prodi chiama “l’ombrello qualunque” che i popoli possono utilizzare in caso di pioggia. Non basta esorcizzare il potenziale distruttivo che il nazionalismo porta con sé, se non siamo in grado di proporre un altro modello di sviluppo, un’altra capacità redistributiva di risorse opportunità e potere, una idea sostanziale di democrazia decidente e comunitaria capace di migliorare le vite delle persone. Ed è proprio il filone della democrazia decidente quello più promettente per contrastare la deriva in corso.

 

Di fronte a questo scenario le domande devono essere all’altezza della sfida. I paesi autoritari definiscono in maniera veloce scelte, strategie di lungo periodo mentre le democrazie si confrontano con la lentezza delle superfetazioni burocratiche e il consenso da misurare sondaggio dopo sondaggio. Da un lato la stabilità autoritaria, dall’altro i governi stagionali. Questa doppia velocità rende la democrazia vulnerabile e alla lunga destinata a soccombere. Senza uno scatto di orgoglio e di efficacia, i sistemi costituzionali rischiano di essere travolti perché incapaci di dialogare con le difficoltà, le paure, le ansie e l’assenza di futuro delle persone.

 

La Cina, la Russia, l’India, ma anche la Turchia e l’Iran, con la forza economica, demografica, culturale e anche militare si pongono al centro del nuovo secolo con una esplicita vocazione imperiale. Per non parlare delle tentazioni egemoniche di Trump, acuite dalla indipendenza energetica raggiunta grazie al petrolio shale oil e trasformate in nuovo protagonismo militare. Per questa via passa anche la rottura di fatto del vincolo atlantico per come l’abbiamo conosciuto.

In particolare la Cina sta spingendo sull’acceleratore della globalizzazione. Non si tratta solo di numeri e di soldi ma di una sfida per l’egemonia culturale forte di 5mila anni di storia e dell’impianto confuciano.

 

Inoltre esiste un tema di assoluta delicatezza, la proprietà e il controllo delle reti, tema che riverbera immediatamente sui big data, sul monitoraggio e controllo degli stili di consumo, di vita, della opinione pubblica, fino agli orientamenti elettorali.
Dunque, quando parliamo di Paesi autoritari parliamo di una serie di implicazioni politiche, economiche, sociali capaci di entrare fin dentro le nostre case.

 

La politica si è fatta piccola piccola, insegue il consenso a basso costo fondato sulla paura e il risentimento e non è più in grado di disegnare collettivamente scenari appassionati. Il nazionalismo, torna ad essere l’ingombro principale producendo confini, diffidenze, razzismo, capri espiatori, nemici immaginari su cui scaricare le pulsioni peggiori dell’opinione pubblica e un pessimo senso comune.

Il nazionalismo, inoltre, alimenta rafforza la struttura patriarcale della società disegnando gerarchie sociali sessuate, maschiliste che non concedono nulla alla autonomia di genere. Il gender equality fa fatica ad affermarsi anche in Europa, ma è certo che non rientra nelle priorità delle élite maschili di Cina, India, Russia, Turchia, Arabia Saudita, Iran e tantissimi altri Paesi. Anzi spessissimo sul corpo delle donne si consumano battaglie religiose, ideologiche che ne negano soggettività e autonomia. Per non parlare della dimensione esplicitamente omofobica che contraddistingue alcuni regimi che fanno della persecuzione di gay e lesbiche un loro tratto distintivo.

Il nazionalismo si avvicina sempre di più alla guerra guerreggiata. Dall’Iran all’Iraq, dalla Siria alla Libia, fino alle rivolte represse violentemente.

In questo contesto l’attuale modello di governance dell’Unione Europea, con i continui rimbalzi tra Parlamento Consiglio e Commissione, il meccanismo farraginoso e lento della co-legislazione, la miopia dei veti degli stati nazionali ci consegnano un quadro ordinario difficile.

 

L’autoritarismo e il fascino dei capi carismatici si battono con la democrazia che decide ascoltando i bisogni e le necessità popolari. Cambiare il modo di funzionare dell’Unione Europea è oggi una priorità: un premier eletto direttamente dal popolo, politiche economiche fiscali e di difesa comuni, gli obiettivi minimi.

 

Probabilmente il primo passo da fare è un salto di qualità: trasparenza, velocità, riforma della giustizia civile e del settore educativo. Ad esempio l’apprendimento lungo l’intero arco della vita. Le economie occidentali dovrebbero specializzarsi nelle produzioni ad alta intensità di capitale anziché in quella ad alta intensità di lavoro. Ricerca, innovazione, conoscenza, conversione ecologica devono stare stabilmente al centro dell’agenda. Così come promesso dall’ambizioso piano sul Green new deal.

 

L’Italia, il cui settore manifatturiero in Europa è secondo solo alla Germania, ha subìto più di altri la concorrenza sleale proveniente da Oriente, in quanto i brand traino della nostra economia, l’alimentare e l’abbigliamento, il lusso e la bellezza, sono più facilmente replicabili.

La vera sfida dunque è nella lotta alla contraffazione, nel riconoscimento a livello internazionale delle nostre proprietà intellettuali, dei marchi. Se chiudessimo le frontiere per un Paese come il nostro, votato all’export, gli effetti sarebbero pesanti.

 

Tuttavia per combattere le conseguenze della globalizzazione selvaggia, tra i cittadini dovrebbe crescere la consapevolezza di ciò che stanno comprando, basare le proprie decisioni di acquisto su fattori che vanno oltre il prezzo. Concentrare l’attenzione e la sensibilità di massa su due grandi questioni, la centralità della persona e quella ambientale. Ridare, anche tramite i comportamenti dei consumatori, valore alla dignità del lavoro e alla tutela del pianeta che abitiamo.

Premiare le aziende e i prodotti, con campagne e politiche pubbliche, che riconoscano esplicitamente la dignità del lavoro, il giusto salario, il contratto collettivo, la salubrità degli ambienti, il divieto del lavoro minorile, gli assegni familiari, la parità di genere, la formazione e l’addestramento professionale.

Premiare le aziende e i prodotti a basso impatto energivoro, che rispettano le normative ambientali, che investono in sostenibilità, che non devastano il paesaggio e l’ecosistema circostante.

Premiare le imprese che si rendono responsabili dell’intera filiera del subappalto in qualità di general contractor e stazione appaltante. Le grandi corporation non possono far finta di non vedere quello che accade a monte del loro sistema di assemblaggio, sfoggiando meccanismi di accountability senza assumersi responsabilità sulla catena della sotto produzione.

 

Provare a ragionare di protezionismo etico non significa non tener conto delle nostre vocazioni all’export, ma articolare un sistema complesso di condizionalità e reciprocità capace di tutelare e proteggere la qualità dei prodotti europei ed italiani, del lavoro connesso alla drammatica questione climatica. Farlo non relegando la domanda di beni e servizi esclusivamente in capo alla responsabilità individuale dei consumatori, ma facendone un fatto pubblico, in qualche modo politico, capace di valorizzare la filiera dei processi e dei prodotti virtuosi. Sfidando i competitori globali, e anche quelli interni all’Unione, obbligandoli ad innalzare gli standard dei loro processi produttivi.

 

L’Europa può innescare forme di competizione virtuosa da non svolgere sulla pelle del pianeta, dei cittadini e di chi vive di lavoro. E l’Europa può tornare a respirare dando fiducia alle sue autonomie, ai comuni, ai corpi intermedi, al principio di sussidiarietà, alla sua storia, ai conflitti, alle rivoluzioni. L’Europa deve favorire il rapporto tra i popoli contrastando l’aggressività imperiale degli Stati. Dentro e fuori i propri confini. L’Europa deve favorire lo scambio interculturale, senza subire ne imporre modelli.
Dentro questa strettoia va riscoperto una sorta di patriottismo europeo fondato sullo stato di diritto e la partecipazione popolare. Una sfida del tutto nuova dentro la quale cambiare il nostro modo di essere cittadini europei e cittadini del mondo.

 

*eurodeputato indipendente eletto nel Pd

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