Ursula von der Leyen (foto LaPresse)

Le opportunità e i pericoli dell'European Green New Deal

Marco Battaglini*

Se il piano diventa un modo per fare politiche dirigiste (à la Ocasio-Cortez) non sarà un bene neppure per l’ambiente

Forse la caratteristica più evidente della nuova Commissione von der Leyen è l’enfasi sui temi ambientali, concretizzata con il piano per rendere l’Europa neutrale rispetto alle emissioni di anidride carbonica entro il 2050, il cosiddetto European Green New Deal. Si tratta di un piano ambizioso che àncora il progetto europeo a temi sentiti dall’opinione pubblica e quindi può contribuire al successo delle istituzioni europee. Il piano, però, si inquadra in un più generale ripensamento delle politiche industriali e anche commerciali dell’Unione europea e quindi merita attenzione anche sotto questo aspetto.

 

Proprio a partire dal nome, l’enfasi del progetto europeo fa eco con il Green New Deal statunitense, un vero e proprio movimento politico lanciato dalla risoluzione congressuale sponsorizzata dall’astro nascente dei democratici statunitensi Alexandra Ocasio-Cortez (e dal più attempato senatore del Massachusetts Ed Markey). Per il successo dell’European Green New Deal è però importante che l’assonanza rimanga solo nel nome. L’aspetto nuovo del piano della Ocasio-Cortez è la fusione dei temi ambientali con politiche interventiste di ampio raggio sull’economia, sia dal punto di vista regolamentare che, in particolare, di spesa pubblica. Sulla scia del piano, il senatore (e candidato alla presidenza) Bernie Sanders, ha proposto, nel proprio programma per la Casa Bianca, investimenti per 16.3 “trillions” di dollari nei prossimi 10 anni. L’enfasi su politiche interventiste addirittura si sposa nel Green New Deal con una perdita di enfasi per politiche di riduzione di emissioni con carbon tax, che naturalmente sono politicamente meno vendibili.

 

Specie alla luce dell’esperienza statunitense, i rischi di politica economica più evidenti per l’European Green New Deal sono due. Il primo è quello di usare politiche ambientali come cavallo di troia per perseguire politiche economiche di altra natura. Il caso statunitense non lascia certo ben sperare, visto che a detta di Saikat Chakrabarti (fino a poco tempo fa campaign manager ed eminenza grigia della Ocasio-Cortez), il piano non è nemmeno “a climate thing” ma un “how-do-you-change-the-entire-economy-thing” (come recentemente riportato dal Washington Post). Del resto il nome parla da solo: il New riecheggia volutamente il New del New Deal Rooseveltiano.

 

Anche in Europa ci sono queste tentazioni, sebbene diverse. In una recente intervista, il vice presidente della Commissione europea, Maros Sefcovic, ha auspicato la creazione di “an Airbus for batteries, for 5G, AI, green tech”. Questo si inquadra in una nuova sensibilità sempre più – diciamo così – dirigista fra i leader europei non solo, ça va sans dire, francesi. In un recente intervento, il ministro dell’economia tedesco Peter Altmeier ha invocato un ripensamento della politica industriale europea per creare “campioni europei”. Un esempio della relazione fra campioni europei e politiche ambientali è dato dalla European Battery Alliance, il consorzio sponsorizzato dalla Commissione europea per la produzione di batterie al litio (con investimenti pubblici per 3.2 miliardi di euro). Ci si può naturalmente rallegrare che la Commissione faccia qualcosa per un’industria forse strategica e in cui il privato è rimasto in grave ritardo; ci si può anche chiedere però perché debba essere la Commissione ad accorgersene adesso. Forse questo ritardo non si sarebbe creato se, come il caso “Dieselgate” insegna, l’attività regolamentare della Commissione fosse stata più efficace nel monitorare l’impatto ambientale dell’industria automobilistica europea: e dunque la sua competitività verso produttori più moderni come la Tesla (che peraltro sta costruendo un impianto di produzione di batterie per auto a Berlino senza, a dire dello stesso Altmeier, sovvenzioni dirette).

 

Questo commento ci porta al secondo rischio: quello di cattura da parte delle lobbies. Uno degli strumenti contemplati nell’European Green New Deal è quello di un “meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere,” cioè di dazi verso paesi in cui si usano tecnologie più inquinanti. Non c’è nulla di male in questo, ma la tentazione di abuso protezionistico dello strumento già si vedono. Non è forse un caso che, fra tutti i campi in cui questo strumento si può applicare, le importazioni agricole sono quelle che prima hanno avuto gli onori della cronaca durante le negoziazioni Ee-Mercosur. Sulla relazione tra le politiche agricole comunitarie e politiche ambientali ci sarebbe poi molto da dire e da fare. Questo è proprio un campo in cui più che di nuove politiche interventiste di spesa, ci sarebbe bisogno di un bel taglio ai sussidi agricoli che portano a inquinamento a base di nitrati e alle popolazioni di animali selvatici.

 

I due pericoli elencati sopra sono seri. I temi ambientali sono e devono restare “bipartisan”. Un loro uso improprio (sia perché farciti di ulteriori propositi o perché catturati dalle lobbies) ne indebolirebbe il supporto, senza il quale nessuna politica di lungo termine è possibile. Il caso americano ancora insegna su questo punto. Vi sono già studi che mostrano come la politicizzazione di questi temi seguita alla risoluzione congressuale del Green New Deal stia avendo effetti sull’opinione pubblica e sia stata strumentalizzata dai media repubblicani. 

 

L’European Green New Deal può essere un’occasione per le istituzioni europee di abbracciare politiche bipartisan con il potenziale per avvicinare i cittadini alle istituzioni comunitarie. Sarebbe un peccato se diventassero un altro cavallo di battaglia per chi vorrebbe smontare l’Europa.

 

*Cornell University ed EIEF