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Cittadini europei, è il vostro momento. L'Europa è tutt'orecchi e apre la stagione dell'ascolto

Paola Peduzzi e Micol Flammini

La conferenza sul futuro dell’Ue, il giudice in Lussemburgo sul rispetto dello stato di diritto, i traslochi inglesi e il sindaco ribelle di Praga

Cittadini europei, questo è il vostro momento: parlateci, siamo tutt’orecchi. Ieri il Parlamento europeo ha votato – 494 voti a favore, 147 contrari, 49 astenuti – la risoluzione che dà il via alla “Conferenza sul futuro dell’Europa”, un enorme cantiere di ascolto che si aprirà il 9 maggio, il giorno la festa dell’Europa. Ora il processo prevede che l’iniziativa passi il vaglio della Commissione e del Consiglio, che siano stabiliti i leader e i parlamentari di riferimento così come le modalità di ascolto dei cittadini. C’è di mezzo la democrazia, ha detto il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, introducendo ieri il dibattito e ribadendo che lo slancio è stato dato proprio dall’aula, pure se l’idea è della Francia di Emmanuel Macron (il presidente è impegnato già dall’anno scorso a dare un senso alla strategia dell’ascolto con i suoi débats cittadini, la risposta alla piazza che assedia il potere francese, sotto varie forme, dalla fine del 2018). La democrazia c’entra perché si tratta di recuperare il rapporto tra palazzo e popolo ancor più importante per un’istituzione come quella europea che negli anni è stata dipinta come l’esempio perfetto del divorzio tra élite e popolo: non a caso ieri molti inglesi filo Brexit tiravano sospiri di sollievo sulla rete, almeno questa ce la siamo scampata. Sassoli ha risposto al consueto disprezzo britannico lanciando l’idea della “democrazia utile”, la leader dei Socialisti&Democratici, Iratxe García, ha citato Jean Monet quando diceva che il progetto europeo “non nasce per mescolare i paesi, ma per mettere insieme le persone”, Dacian Ciolos, capogruppo di Renew Europe, ha detto che la conferenza è “un’opportunità per aprire le porte ai cittadini europei”, perché “l’Ue non è stata creata per le élite”. Manfred Weber, che guida i popolari, ha usato il suo intervento per dire che l’ascolto è sì importante, ma la selezione trasparente dei leader europei lo è ancora di più: chissà se questo politico bavarese riuscirà mai a digerire il fatto di essere stato uno spietzekandidat e di non essere poi diventato presidente della Commissione.

 

Mentre l’Europarlamento apriva le orecchie e si iniziava a discutere di come organizzare l’ascolto (c’è ancora da decidere chi guiderà i lavori, se lo stesso Sassoli o Guy Verhofstadt, che lo vorrebbe tantissimo), alcuni ricordavano che l’ultima volta che era stata introdotta una conferenza sul futuro era il 2003, e finì con la scrittura di quella Costituzione europea che due anni più tardi sarebbe stata bocciata al referendum in Francia e Olanda. Oggi nessuno (tranne Macron) vuol parlare di modifica dei trattati e men che meno di consultazioni popolari, ci mancano giusto altri esiti referendari da governare. Le ambizioni sono ridotte, la parola “riforma” è sulla bocca di tutti ma al momento senza dettagli: c’è l’urgenza di aprire le orecchie, ma per farci cosa poi, di tutto questo necessario e quasi obbligatorio ascolto, ancora non si sa. L’importante è guardare al futuro: basta con le liti del passato, gli sgambetti, le brutture, gli errori, l’inerzia. Gli euroscettici vogliono che la conferenza sia una riflessione su tutto quello che non va dell’Europa, mentre gli europeisti non vogliono sentir parlare di quel che è stato ma soltanto di quello che sarà. I lavori si chiuderanno nel 2022, quando la Francia prende la presidenza di turno dell’Ue e deve decidere se tenersi Macron per un altro mandato. 

 

La guardiana dello stato di diritto. Lo stato di diritto è sulla bocca di tutti nell’Ue. Da una parte ci sono quelli che lo considerano un valore fondante e se la prendono con Ungheria, Polonia e Malta, che stanno rimettendo in discussione le regole di funzionamento delle democrazie europee. Dall’altra ci sono Viktor Orbán, Leck Kaczynski e Joseph Muscat (il premier maltese si è dimesso) che denunciano intollerabili intromissioni negli affari interni dei loro paesi da parte di forze straniere organizzate. In mezzo c’è la Commissione di Ursula von der Leyen che promette di far rispettare lo stato di diritto ma è già sospettata di complicità con Budapest e Varsavia perché hanno sostenuto la sua elezione. Anche il suo predecessore, Jean-Claude Juncker, era stato particolarmente prudente sulla questione. La sua Commissione, sotto la direzione di Frans Timmermans, aveva deciso di aprire la procedura dell’articolo 7 contro la Polonia, ma aveva atteso una raccomandazione del Parlamento europeo prima di muoversi contro l’Ungheria. Juncker e Timmermans avevano anche chiuso gli occhi di fronte alle denunce che venivano da Malta sull’assassinio di Daphne Caruana Galizia o all’uso politico della magistratura in Spagna per reprimere i leader del movimento indipendentista catalano. Così il tradizionale ruolo della Commissione di “guardiano” dei Trattati su democrazia e stato di diritto è stato assunto dalla Corte di giustizia dell’Ue. In questi anni sono stati i giudici di Lussemburgo a prendere le decisioni più coraggiose contro Varsavia che viola l’indipendenza dei giudici, contro Budapest che costruisce muri e affama migranti, contro la Spagna che dichiara decaduti dal Parlamento europeo Carles Puigdemont e Oriol Junqueras perché non hanno potuto firmare un documento a Madrid. Il presidente della Corte di giustizia dell’Ue, il belga Koen Lenaerts, è uscito dal tradizionale riserbo sullo stato di diritto. “Non si può essere un membro dell’Ue se non hai tribunali indipendenti e imparziali, che operano secondo il principio del giusto processo, facendo rispettare il diritto dell’Unione”, ha detto Lenaerts la scorsa settimana a Varsavia, dopo che il parlamento polacco ha approvato l’ennesimo disegno di legge che mette in dubbio l’indipendenza dei giudici. Lunedì, prima del giuramento della von der Leyen e dei suoi commissari, Lenarts ha implicitamente chiesto alla Commissione di essere più assertiva come “guardiano” dello stato di diritto. “Alcune inquietudini legate al rispetto dello Stato di diritto, della democrazia, oltre che delle libertà e dei diritti fondamentali, si sono manifestate in più Stati membri e hanno portato a una moltiplicazione di cause, specialmente pregiudiziali, dinanzi alla Corte. Questa base comune di valori (…) non potrà tollerare alcun compromesso né concessione”, ha detto Lenaerts: su stato di diritto, democrazia e libertà fondamentali “la Commissione ha un ruolo importante da svolgere, nella sua qualità di ‘guardiano dei trattati’”. L’appello non è rimasto inascoltato. Martedì la Commissione ha chiesto ai giudici di Lussemburgo di imporre alla Polonia misure provvisorie per bloccare le leggi contro l’indipendenza della giustizia. Ieri la commissaria Vera Jourova ha usato parole dure sulle derive dell’Ungheria. Grazie a un giudice a Lussemburgo, forse tornerà a esserci un guardiano dello stato di diritto a Bruxelles.

 

Traslochi. Gli europarlamentari inglesi stanno liberando i loro uffici, mentre i colleghi che restano fanno progetti, sognano spazi più ampi, allargamenti, occupazioni anche, se dovesse essere necessario. Dal primo febbraio, il Parlamento europeo cambierà un pochino i propri equilibri: i parlamentari in totale non saranno più 750 ma 705 (in realtà sono 704, perché il catalano Junqueras non ha potuto sedersi al suo posto come invece hanno fatto i suoi due colleghi, Carles Puigdemont e Toni Comín). Dei 73 posti inglesi lasciati liberi, 27 saranno redistribuiti, 46 resteranno liberi per eventuali adesioni future all’Ue. I 27 sono redistribuiti in 14 paesi, tra cui anche l’Italia (ne prende tre), ma secondo i dati pubblicati dal Parlamento europeo a guadagnarci saranno i partiti di destra e di estrema destra, a discapito delle forze di sinistra che, nel saldo finale, perdono di più rispetto agli altri – l’ultimo lascito degli inglesi brexitari.

 

Liberi mica tanto. Sembra francese e non lo è. Eppure è tutto scritto in francese, si chiama France libre 24 (Fl24) e ha una tour Eiffel come logo ma al di là della lingua di francese ha ben poco. E’ un sito polacco con notizie riportate in francese e gestito da Konfederacja, il partito di estrema destra che è riuscito a entrare in Parlamento alle elezioni dello scorso anno rubando qualche voto ai delusi dal PiS, il partito nazionalista di governo. Sarebbe stato tutto impercettibile. Fl24 è nato a luglio e a gennaio ha rivelato la sua vera identità dopo che un’inchiesta condotta dal gruppo Eu DisinfoLab e dal sito Politico hanno scoperto che dietro la testata nata a luglio c’erano collegamenti con Janusz Korwin-Mikke, ex europarlamentare e membro di Konfederacja. La scoperta ha messo l’Ue davanti a una domanda, ma come si fa a combattere la disinformazione contro siti che sembrano affidabili? Su Fl24 è tutto un parlare male dell’Unione e bene del Rassemblement national, male di Macron e bene di Marion Maréchal. Una forte fonte di propaganda contro i migranti, contro i gay, anche contro i vaccini ma mascherata dietro una testata dal nome impensabile: France libre 24. La Commissione vuole un nuovo piano d’azione. Affidarsi a Google, Facebook e Twitter e l’autoregolamentazione non basta più. Come combattere un sito di un partito di estrema destra polacco che parla in francese sotto un nome che, beffa assoluta, sa di “libertà”?

 

Non siamo più sorelle. Il municipio di Shanghai ha tolto Praga dalla lista delle città gemellate e ha sospeso tutti i contatti con la capitale ceca “che commette errori continui su questioni cruciali per l’interesse cinese”. Lunedì il sindaco di Praga, il 38enne Zdenek Hrib del Partito dei pirati, ha deciso di gemellarsi con Taipei (dove ha vissuto quando era studente in medicina) dopo aver gettato via a ottobre anche la partnership con Pechino per “evidenti divergenze ideologiche”. La Repubblica ceca ha firmato il memorandum d’intesa con la Cina sulla Belt and Road Initiative nel 2015, il presidente Milos Zeman tiene tantissimo a questa relazione, ma l’opposizione oggi passa anche da una forte ostilità nei confronti della Cina. Hrib, che assieme ad altri sindaci delle capitali dell’est Europa ha siglato il “patto delle città libere” contro i nazionalismi e i populismi di molti governi centrali, dice di non temere ripercussioni, anche se ha offeso l’ambasciatore cinese a Praga che a un incontro gli aveva chiesto di far andare via il diplomatico di Taiwan. Se i 600 mila turisti cinesi che arrivano a Praga non dovessero più arrivare, non sarebbe un problema secondo Hrib: la città tornerebbe al livello di turismo in cui era nel 2017, che non sarebbe una tragedia visto che la città ha parecchi problemi a gestire il flusso continuo di visitatori. “Non sono dei partner affidabili”, ha detto il sindaco al Financial Times qualche tempo fa riferendosi ai cinesi: avevano promesso un panda per lo zoo di Praga, non è arrivato nemmeno quello.

 

Articolo scritto con la collaborazione di David Carretta