Vladimir Putin supervisiona la firma di un accordo tra Igor Sechin della Rosneft e Rex Tillerson della ExxonMobil nel 2012

Mosca cambia la politica petrolifera e a Washington non la prendono bene

Gabriele Moccia

Rosneft notifica che i contratti d’appalto saranno denominati in euro e non più in dollari. La fine di uno storico predominio

Roma. La Russia annuncia una svolta nella propria politica petrolifera per mettersi al riparo dalla guerra dei dazi tra gli Stati Uniti e la Cina. Uno dei principali tasselli della politica estera del Cremlino, il gigante petrolifero Rosneft, ha notificato ai propri clienti e partner commerciali che i futuri contratti di appalto per i prodotti petroliferi saranno denominati in euro e non più in dollari. La mossa di fatto pone fine al predominio incontrastato del dollaro come valuta tradizionalmente legata al mercato dell’oro nero dai tempi dell’epopea dei Rockefeller e della Standard Oil di fine Ottocento. Questo perché la compagnia russa, che rappresenta oltre il 40 per cento della produzione di petrolio del paese e capitalizza in borsa circa 53 miliardi di euro, è attiva nelle esportazioni petrolifere nei mercati di sbocco anche di Washington: Europa e Asia in primis. Secondo gli analisti, dunque, l’industria petrolifera americana, ma anche quella mediorientale che ancora è agganciata al dollaro, potrebbero accusare il colpo, anche perché Rosneft vende greggio ai principali trader di materie prime internazionali come Glencore, Trafigura, Vitol e Cetracore. C’è un’altra mossa che ha particolarmente irritato la Casa Bianca in questi giorni e che riguarda i rapporti sempre più stretti tra il Venezuela di Maduro e il presidente russo Putin. Rosneft ha concesso alla compagnia petrolifera venezuelana, la Pdvsa, di ridurre il proprio debito nei confronti della società energetica russa di quasi 700 milioni di dollari (da 1,8 a 1,1 miliardi di dollari), questo per consentire maggiore ossigeno finanziario all’alleato venezuelano. Venezuela e Russia, lo scorso 8 agosto, hanno poi firmato un protocollo per facilitare le attività di Rosneft nei giacimenti di gas di Patao e Mejillones. Un vero schiaffo alla politica trumpista che proprio in queste settimana ha aumentato le pressioni per abbattere il regime di Maduro e arrivare presto a nuove elezioni. Il dibattito legato all’uso del dollaro quale valuta principale del mercato petrolifero non è nuovo e, negli ultimi anni, anche grazie alla tempesta del cheap oil, si è assistito a un attacco in salsa “sovranista” da parte di molti paesi produttori di greggio che hanno tentato di introdurre valute alternative. Lo scorso marzo, in occasione della promulgazione del Nopec Bill – la legge che consente al Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti di indagare i membri dell’Opec per manipolazione del mercato petrolifero – l’Arabia Saudita ha minacciato l’uscita dal sistema del dollaro nei propri scambi petroliferi e in quelli di tutti i paesi dell’Opec, il principale cartello dei paesi petroliferi. In quell’occasione, il ministro dell’energia degli Emirati Arabi, Suhail bin Mohammed al Mazroui, dichiarò alla stampa che il cambio legato all’uso del dollaro americano come principale valuta di scambio del petrolio “non è qualcosa che si fa in una notte”. Anche la Repubblica islamica, sotto la scure delle sanzioni innescate dalla Casa Bianca, ha sviluppato forme alternative di pagamento dei propri prodotti petroliferi che non passano per l’utilizzo del dollaro, in particolare attraverso una piattaforma di scambio valute denominata Nima.

 

Il paese che più di tutti ha attentato alla supremazia del dollaro nel sistema energetico è la Cina. Per il momento, però, Trump non sembra intenzionato a spostare il mirino anche sulle mosse energetiche di Pechino, spezzare il cartello dell’Opec e fermare l’avanzata russa in Europa

Il paese che più di tutti ha però attentato alla supremazia del dollaro nel sistema energetico è la Cina. Lo scorso anno, come elemento collaterale alla strategia generale di Pechino per sfidare lo status del dollaro come valuta di riserva globale chiave anche per le transazioni energetiche globali, è nato lo Shanghai International Energy Exchange, denominato in reminbi e che consente scambi tra tutti i principali produttori di idrocarburi mondiali. Un hub finanziario obbligato per i produttori che vogliono avere accesso al mercato cinese, uno dei principali in termini di domanda energetica. La guerra dei dazi innescata dal capo della Casa Bianca non ha fatto altro che accelerare queste piazze finanziare alternative. Di recente, Leonid Mikhelson, l’amministratore delegato del colosso energetico russo Novatek, ha affermato che le vendite di contratti futures cinesi denominati in reminbi sono di particolare interesse per il mercato russo. Ovviamente la leva è sempre il quadro sanzionatorio, come evidenzia Mikhelson: “Abbiamo discusso queste ipotesi con i maggiori partner commerciali della Russia come India e Cina e anche i paesi arabi stanno iniziando a pensarci. Se gli Stati Uniti creano difficoltà per le nostre banche russe, tutto ciò che dobbiamo fare è sostituire i dollari, la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina non farà che accelerare il processo”, conclude il capo azienda di Novatek. C’è chi come l’analista asiatico Rory Green la pensa diversamente: “Con l’indebolimento del reminbi e se gli Stati Uniti dovessero imporre tariffe del 25 per cento su tutte le esportazioni cinesi, sarebbe più difficile per la Cina convincere i grandi produttori di petrolio come Russia, Iran, Iraq e Venezuela a fare questo passaggio dal dollaro alla valuta cinese”, secondo Green poi, “anche per la Cina i tempi non sono giusti, dato che il suo utilizzo sia dei dollari che dell’euro è attualmente molto ingente, ha molte obbligazioni denominate in dollari soprattutto a breve termine e la sua bilancia dei pagamenti ha bisogno di una domanda americana relativamente sana. Ma la Cina vuole allontanarsi dal sistema del dollaro è questa è la direzione generale del viaggio che intraprenderà”, evidenzia l’analista della società Ts Lombard. Per il momento, Trump non sembra intenzionato a spostare il mirino anche sulle mosse energetiche cinesi, spezzare il cartello dell’Opec e fermare l’avanzata russa in Europa che attraverso i propri tubi vuole accaparrarsi una grande fetta del mercato del gas del Vecchio Continente, sono questi i due principali bersagli della dottrina trumpiana della dominanza energetica.

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