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Ipotesi dietro alla svolta pop dei big di Wall Street

Alberto Brambilla

La Business Roundtable prepara gli azionisti allo sboom demografico venturo

Si dirà che Milton Friedman si starà rivoltando nella tomba a sentire gli intendimenti dalla Business Roundtable, l’associazione che riunisce i 181 capi delle principali società americane. Lunedì hanno dichiarato che le loro società esistono per “dare beneficio a tutte le parti interessate – clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti”. Mettendo gli azionisti all’ultimo posto. Negli ultimi cinquant’anni il capitalismo americano è stato gestito secondo l’assunto che le aziende esistono per garantire ritorni per i loro soci. Nessuna beneficenza e nessuna particolare screening etico. Così alcuni dei più pagati manager del pianeta sembrano avere abbandonato l’idea del primato degli azionisti ora superati dagli stakeholder, la comunità aziendale ma estesa, più in generale, alla popolazione intera. Friedman aveva anche detto però che il rispetto delle regole significava più che obbedire alla legge: significava conformarsi all’usanza etica. Semmai sono i manager della Business Roundtable – che include Amazon, Apple, American Airlines, Caterpillar, Ibm, Johnson & Johnson, Pfizer, Walmart – a sentirsi in difetto e anche a essere messi sotto pressione dal mercato visto che i criteri ambientali e di responsabilità sociale fanno ormai parte delle condizioni da soddisfare per accattivarsi la preferenza degli investitori. Ora i manager dicono che gli azionisti contano, ma lo stesso vale per clienti, dipendenti, fornitori perché massimizzare il profitto avrebbe svuotato le comunità locali spostando la produzione in luoghi lontani. Distribuire meno denaro ai soci per condividere con loro il fardello della responsabilità verso una molteplicità di attori della società appare in effetti contraddittorio rispetto alla necessità di attirare investitori. Anche perché non viene chiarito in quale modo il denaro “sottratto” ai soci, pochi, verrà distribuito ai molti. Per esempio i grandi manager parlano di retribuzione equa dei lavoratori ma non c’è alcun impegno a pagarli di più, per ora. Sembra, così per come è presentata, un’operazione di “soul washing”, di pulizia dell’anima, spinta dalle generiche richieste della popolazione, una specie di populismo aziendale.

 

D’altronde il capitalismo si adatta alle circostanze, per questo è sopravvissuto così a lungo. E probabilmente il coro dei ceo americani dopo avere cantato le odi di Donald Trump si sta intonando non solo a una eventuale avanzata dei democratici nel 2020 – al punto che sembrano avere stretto un patto ideale con Elizabeth Warren e Bernie Sanders – ma anche alla sfida più grande, ovvero quella della decrescita della popolazione mondiale. Un mondo nel quale le società avranno aspettative più ridotte di oggi sugli utili futuri. In un articolo pubblicato su Foreign Affairs – “Lo scoppio della popolazione e la fine del capitalismo come lo conosciamo” – Zachary Karabell, investitore e commentatore, avanza il problema. Karabell parte dalla considerazione che il capitalismo particolarmente vulnerabile un mondo con una minore espansione della popolazione, dal momento che una parte significativa della crescita economica negli ultimi secoli potrebbe essere semplicemente derivato dalla circostanza che più persone e più giovani consumano di più. Se il mondo avrà una popolazione più ridotta di oggi ci sarà una vera crescita economica? 

 

A oggi quasi ogni paese europeo ha un tasso di fertilità inferiore alle 2,1 nascite per donna, ovvero il tasso di sostituzione della coppia genitrice. Questo significa che nei prossimi decenni la popolazione europea nel complesso è destinata a invecchiare se le nascite non riescono a compensare, e tanto meno a superare, i decessi. La tendenza è evidente in Giappone e in Italia. In Russia idem dove ci sono alti tassi di mortalità maschile.

 

Il problema, sottolineava Foreign Affairs, è che la riduzione della popolazione sta diventando globale quasi alla stessa velocità del boom che la popolazione ha fatto nel Ventesimo secolo. I tassi di fertilità in Cina e India – che insieme rappresentano quasi il 40 percento delle persone nel mondo – sono al di sotto dei livelli di sostituzione. Il tasso di fertilità della Cina, in caduta libera, potrebbe peggiorare seguendo il Giappone, e questo porterebbe la Cina a ridursi a meno di 700 milioni di persone nella seconda metà del secolo. Anche in paesi popolosi come il Brasile avviene lo stesso così come in Malesia, Messico e Thailandia. L’Africa sub-sahariana fa eccezione con un valore elevato di natalità e una popolazione molto giovane. Di questo passo, e con un invecchiamento di una popolazione in progressivo declino, ci si può aspettare una stagnazione demografica.

 

L’automazione dei processi industriali e l’intelligenza artificiale potranno rendere superflue alcune mansioni per un decennio, finché non si svilupperanno – come già accade – nuove professioni utili a gestire le tecnologie avanzate. Il lato positivo, tra gli altri, dell’automazione dei processi, dei servizi e della mobilità, è quello per cui l’umanità probabilmente sta così risolvendo il problema di una popolazione in invecchiamento che necessita di automobili a guida autonoma, dispositivi per la domotica, servizi di cura della persona e sostegno psicologico dotati di intelligenza artificiale.

 

In effetti nessun sistema economico capitalista opera sulla presunzione che ci sarà crescita zero o negativa, in linea teorica non ci sarebbe motivo di programmare un investimento se mi aspetto che nessuno comprerà il mio prodotto o il mio servizio. Ma in un mondo di popolazioni in calo è uno scenario probabile. Come dice Karabell, un mondo con crescita della popolazione da zero a negativo è probabilmente un mondo di crescita economica da zero a negativa dal momento che sempre meno persone anziane consumeranno meno. Se crescita si ferma, le persone potrebbero iniziare a chiedere un nuovo e diverso sistema economico. Un mondo con crescita demografica negativa avrà una crescita economica negativa ma si ritroverà con una capacità industriale superiore al necessario, rendendo preferibile ridurre gli investimenti anziché aumentarli, concentrandosi sulla riduzione dei costi, ed eventualmente ridurre la remunerazione per gli azionisti. E quindi bene che si preparino da ora a essere messi da parte, la Roundtable li ha avvertiti.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.