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Indagine sulle radici dell'intesa tra grande capitale e corbynismo

Giorgio Arfaras

Da Keynes al Piano Meidner in Svezia. Ovvero quando redistribuire serve per evitare che i rivoluzionari arrivino al potere

In Svezia negli anni 70 fu concepito il Piano Meidner, un’ingegnosa “via finanziaria al socialismo”, diversa dalla “via giudiziaria” italiana, e dalla “via rivoluzionaria” russa. La crescita economica in Svezia era robusta e la dinamica salariale contenuta. Le imprese meglio messe potevano combinare gran crescita e costi contenuti. I profitti come conseguenza non potevano che crescere, e molto. All’epoca non si aveva la “libera circolazione dei capitali” e quindi si potevano controllare i redditi d’impresa. Ecco la tentazione di condividere i ricchi profitti con i lavoratori dipendenti. Il piano immaginava che una parte dei profitti in eccesso – materializzato sotto forma di azioni conferite – sarebbe stata messa in un fondo comune di proprietà dei lavoratori. Le azioni cumulate anno dopo anno avrebbero alla fine accresciuto il controllo dei lavoratori sulle imprese, fino a renderlo decisivo. Del piano di Meidner però si fece nulla, tanto che, alla fine, il fondo fu liquidato con le politiche di privatizzazioni degli anni Novanta. Mezzo secolo risorge l’idea della maggior condivisione dei frutti del progresso tecnico: nel Regno Unito con il piano laburista di Jeremy Corbyn di diffondere fra i lavoratori la proprietà d’impresa, tramite il conferimento di azioni a dei fondi dedicati, a condizione che le imprese, tutte quelle presenti nel territorio quindi britanniche o meno, abbiano più di 250 dipendenti. Negli Stati Uniti con l’intenzione manifestata da molte delle imprese maggiori, le cosiddette “180” della Business Roundtable, di tornare, allo “stake holder value”, in auge oltre trenta anni fa, con la messa in sordina del suo erede lo “share holder value”. Con la prima espressione si sostiene che un’impresa ha più interessi da servire – gli azionisti, i dipendenti, i clienti, la comunità, con la seconda si sostiene che, se un’impresa serve gli interessi dei propri azionisti, ecco che serve gli interessi di tutti. La differenza fra gli intendimenti britannici e statunitensi è palmare. Nel primo caso i lavoratori possono fare pressioni sulle imprese tramite le azioni che posseggono, nel secondo sono i cda che non hanno come azionisti i lavoratori organizzati, che decidono. L’obiezione maggiore al progetto radicale del controllo, seppur parziale, dei dipendenti sulle imprese, così come a quello lasco di spingere le imprese verso il sociale è simile. In sintesi, i lavoratori o le comunità potrebbero frenare le innovazioni che ne alterino le competenze, ciò che frenerebbe la dinamica dell’economia. Si hanno, al solito, delle complicazioni.

 

Domanda: siamo alla fine di un ciclo, iniziato “a destra” negli anni Ottanta con Thatcher e Reagan e poi proseguito, nelle sue grandi linee, “a sinistra” con Blair e con ritardo anche in Italia, ciclo che vedeva l’economia di mercato libera di agire, perché avvolta da un sostanziale consenso? Stiamo insomma vivendo la fine del ciclo detto neo-liberista, con la fine marcata dall’arrivo del Populismo?

 

Urge richiamare i “padri della patria”. Keynes è visto come il padrino dell’attivismo economico, ma è anche colui che ha evitato – sul piano della elaborazione intellettuale – il disastro che stava sorgendo negli anni Venti e Trenta. Il keynesismo ha contribuito al mantenimento dell’ordine liberale in una nuova veste, quella sviluppatosi dopo la guerra, nella forma dello Stato Sociale. Keynes rientra nel filone della critica di Burke della Rivoluzione francese, critica che insiste nell’affermare che, per quanto attraente possa essere una rivoluzione, questa, alla fine, porta al disastro. E dunque che la rivoluzione va governata evitando che prendano il sopravvento i rivoluzionari. La sfida consiste nel navigare evitando la regressione conservatrice e il rovesciamento rivoluzionario. Fatta la doverosa premessa – le rivoluzioni vanno fatte proprio per i evitare i rivoluzionari – entriamo nel merito. Per fermare il Populismo è ragionevole accrescere l’intervento pubblico (“keynesianamente”) come regolazione della domanda aggregata o è anche ragionevole (“meidnerianamente”) mutare in parte la sovranità dell’impresa accettando che i lavoratori partecipino al capitale di rischio? Sulla regolazione della domanda aggregata il disaccordo solitamente verte sull’ammontare di deficit e debito. Un disaccordo gestibile e gestito. Sui lavoratori come azionisti il disaccordo dovrebbe, invece, essere maggiore, perché il potere dei vecchi azionisti sarebbe ridimensionato e la dinamica delle innovazioni frenata.

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