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Perché Corbyn avrebbe un posto tra i big boss della Roundtable

Alberto Brambilla

Dare al popolo quello che chiede. Nella “redistribuzione” dei profitti c’è la saldatura tra il corbynismo e la corporate America

Roma. C’è una parola che unisce le intenzioni del leader del laburista Jeremy Corbyn e quelle dei più potenti boss dell’industria americana, dell’estrema sinistra inglese e del capitalismo finanziario e industriale dell’economia più potente del pianeta: “redistribuzione”. Redistribuire i profitti, i beni, la proprietà e il potere per condividerlo con il popolo e la comunità.

 

Se dovesse vincere l’estrema sinistra di Corbyn alle possibili elezioni post Brexit, secondo il Financial Times, si determinerebbe un travaso della ricchezza dalle principali società inglesi ai loro lavoratori. Nei piani del cancelliere dello scacchiere ombra, John McDonnell, c’è infatti l’idea di creare dei “fondi per l’inclusione della proprietà” nei quali le società con più di 250 dipendenti dovrebbero gradualmente trasferire il 10 per cento delle azioni per darle ai lavoratori. Secondo i calcoli elaborati dal quotidiano inglese insieme a Clifford Chance verrebbero trasferiti circa 300 miliardi di sterline in azioni ai lavoratori di circa 7 mila aziende. Le azioni sarebbero possedute e gestite dai lavoratori che riceverebbero dividendi di 500 sterline a testa in media per anno. Creare un fondo posseduto dai lavoratori consentirebbe loro anche di avere voce in capitolo sulla gestione ed, eventualmente, opporsi in assemblea a operazioni finanziarie o a progetti di delocalizzazione o, per esempio, di licenziamenti. “Non ci sono precedenti in questo senso – ha detto Dan Neidle di Clifford Chance – siamo in un territorio completamente inesplorato”.

 

Navigare in terra incognita non significa però che l’idea sia considerata malvagia dalle grandi aziende e dalla comunità degli affari che si è detta pronta a realizzare spontaneamente, in America, quanto il governo laburista farebbe nel Regno Unito. Due settimane fa la Business Roundtable – che riunisce le principali società di Wall Street, come Walmart, Apple, Amazon, At&t e JPMorgan – ha pubblicato un documento firmato da 180 amministratori delegati con l’impegno di “guidare le proprie aziende a vantaggio di tutte le parti interessate – clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti”. Gli azionisti sono stati messi all’ultimo posto di proposito, a significare che lo scopo della gestione non è più quello di massimizzare i guadagni per gli investitori sotto forma di dividendi ma quello di redistribuirli alla comunità. Il proposito è encomiabile, peccato però che non ci sia un impegno immediato, per esempio, ad aumentare la paga oraria di ciascun lavoratore in ciascuna azienda firmataria del documento.

 

Tuttavia la saldatura tra il cobynismo e il capitalismo americano sta nella desiderio di “restituire” alla comunità locale o dei lavoratori il frutto di quanto prodotto e venduto. La novità sta nella comunione di intenti. Non c’è niente di sbagliato nell’affermare di avere un impegno etico nei confronti dei clienti, dei dipendenti, dei fornitori o della comunità che vive attorno a un’azienda. E’ bizzarro che i principali ceo siano arrivati quasi a scusarsi perché cercano di creare valore per i loro azionisti, il popolo della Borsa. L’esistenza stessa del business, del “fare quattrini”, è stata demonizzata dai democratici come Elizabeth Warren, Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, per non parlare della stampa e dei campus universitari americani. E alla fine la demonizzazione degli affari è paradossalmente entrata nei consigli di amministrazione.

 

Si è così fatta largo l’idea che i mercati siano di per sé oppressivi per la moltitudine. I capi azienda stanno lasciando che la loro leadership sia perciò determinata da fattori esterni diversi dalle strategie aziendali, ovvero ascoltare e fare quello che il popolo vorrebbe. I politici come Corbyn intendono approfittarne per raccogliere consenso. Con il loro permesso.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.