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Non basta un'emozione davanti all'incendio di Notre-Dame

Giovanni Maddalena

Mentre social e media si abbandonano all'auto-eccitazione c'è un valore che non può essere negato: la cattedrale rappresenta la storia che ci rende veramente uniti come europei

Un paio di osservazioni di comunicazione sul caso Notre Dame di Parigi. Una nota radio italiana stamattina invitava gli ascoltatori a telefonare per dire le proprie emozioni della sera precedente. Del resto, da subito, messaggi, social network, trasmissioni video e radio sono state piene di “emozioni”, ultimo criterio di giudizio su ogni evento. Su un’altra radio nazionale, nella notte, un ascoltatore si chiedeva se la maggioranza, come lui, avesse sentito, percepito, forse auscultato, che si trattasse di un attentato e non di un incidente. Come se l’emozione-reazione fosse un criterio per decidere della verità. Come sappiamo, il mezzo crea il messaggio: nella concitazione della velocità delle trasmissioni, oltre che nella sete comunicativa del nuovo e dello shock, ogni messaggio è diventato emozionante e perciò più vero e più vicino.

 

Nelle emozioni, segno del vero comunicativo, l’incendio è diventato tragedia in modo paradossale. Nello stesso giorno ci sono state decine di vittime umane in Libia e qualche cruento omicidio in Italia. Ma sono diventate notizie di secondo piano rispetto alla tragedia emozionante. La differenza è che Notre Dame è già un oggetto emozionale. Parlando della cattedrale di Parigi si fa riferimento a un oggetto già comunicato in mille foto, film, video privati e pubblici, trasmissioni. Non è più un oggetto ma, a sua volta, un’emozione. Così abbiamo assistito al crollo emotivo di un oggetto emozionale, un’emozione al quadrato. A Parigi sono crollati il tetto e la guglia di una chiesa molto rappresentativa, ma non la più bella né la più antica. Invano, qualche storico dell’arte in tutte le trasmissioni provava a dire che in fondo Notre Dame era stata rifatta tante volte e che ciò che vediamo è soprattutto la ricostruzione ottocentesca. Niente da fare, Notre Dame, tra foto e film, come oggetto emozionale doveva essere la chiesa più importante e più vecchia del mondo, crollare del tutto e generare altre emozioni. Forse qualcuno è rimasto deluso a vederla ancora lì, quasi intera, la mattina dopo.

 

Eppure, tra tutte queste emozioni che spesso hanno alterato e alterano la cognizione effettiva delle cose, un altro insegnamento comunicativo, positivo, rimane. Che cos’è che ci spiace davvero quando vediamo la distruzione di un’opera vista, ripresa, disegnata, immaginata tante volte? Ciò che viene ferito è il livello di significato delle cose, il piano simbolico, quello dove si stratificano i valori della storia. Strano, nel nostro materialismo pensiamo che la realtà sia solo quella che si vede, si tocca e si sente – come sono astratti e liquidi i famosi valori! – ma poi piangiamo quando cade un pezzo di storia. Molto di più del valore artistico, in Notre Dame sentiamo davvero il dolore per la possibile perdita di un valore storico. Eppure, la storia non si dovrebbe vedere o sentire. Invece, eccola lì, che viene ferita al crollo di una guglia già rovinata. Chi ha vissuto in paesi extra-europei sa che ciò che ci rende davvero uniti come europei è proprio questa storia, anche se molto spesso non la si sa identificare molto spesso. Da oggi, al netto della auto-eccitazione social delle emozioni, sappiamo che i valori storici sono ancora lì, solidi, sulle guglie e nei nostri cuori.

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