L'interno di Notre-Dame dopo l'incendio (foto LaPresse)

Notre-Dame e l'identità cattolica

Matteo Matzuzzi

Le preghiere in strada davanti al rogo, il suono delle campane. La presa di coscienza di un’anima cristiana

Roma. Nessuno li aveva convocati, né preti né vescovi. Le decine di giovani che si sono inginocchiati a terra, sui marciapiedi, mentre davanti a loro Notre-Dame bruciava, si sono ritrovati lì spontaneamente. Pregavano e cantavano, l’Ave Maria in francese (“Je vous salue Marie”), il Salve Regina in latino, il Padre Nostro. E le invocazioni a Sainte-Geneviève, la patrona. Un ragazzo, interpellato da un giornalista sull’orario di conclusione della veglia, rispondeva che sarebbe durata tutta la notte: “Non posso lasciare la mia chiesa”. Forse ha ragione il vaticanista del Figaro, Jean-Marie Guénois, che intervistato da Avvenire ha detto che il rogo potrebbe “innescare una presa di coscienza tra i cattolici francesi”. Queste fiamme, aggiungeva, “potrebbero costringerci a interrogarci sull’identità del paese e della sua anima cattolica”. Certo, per tanti Notre-Dame de Paris è un museo, meno bello del Louvre ma che per i selfie è perfetto, lì incastonato tra la Senna che scorre alla sua destra e alla sua sinistra. Ci ha pensato l’arcivescovo Michel Aupetit a ricordare che prima di tutto quell’edificio è una chiesa, costruita non tanto per conservare la corona di spine di Cristo, ma il suo corpo sotto forma di pane. Lunedì sera, mons. Aupetit ha dato ordine ai preti cittadini di far suonare le campane di tutte le chiese per chiamare alla preghiera e faceva un certo effetto vedere i video postati sui social network che rilanciavano, nell’oscurità della notte, il lugubre suono delle cloche. E l’eco dei campanoni giungeva anche dalle chiese sorelle, da Chartres e da Auxerre, da Strasburgo e da Reims. Anche tanti non cattolici – così si dichiaravano su Twitter o davanti ai taccuini dei giornalisti – restavano colpiti da quella folla inginocchiata mentre nelle orecchie sentivano i canti e le campane. E’ il potere di Notre-Dame, che nei secoli attrae e non abbandona più. 

  

  

Ne sa qualcosa Paul Claudel, che proprio durante una messa di Natale nella cattedrale si convertì. “Ero in piedi tra la folla, vicino al secondo pilastro rispetto all’ingresso del Coro, a destra, dalla parte della sacrestia. In quel momento capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla”.

  

 

Uno tra i primi ad accogliere l’invito dell’arcivescovo è stato l’abbé Pierre-Hervé Grosjean, “il prete più famoso di Francia”, 41 anni e attivo sulla piazza pubblica. “Siamo sì minoranza, ma non saremo mai una minoranza come le altre, una minoranza tra le altre: non si cancellano in un colpo millecinquecento anni di storia cristiana”, diceva al Foglio in un’intervista di un paio di anni fa. Analizzava, in quell’occasione, il male che aveva da ultimo annichilito il cattolicesimo locale: “Quando si è una minoranza, si è tentati di diluirsi o di rinchiudersi in se stessi. In un caso come nell’altro significa rinunciare a essere presenti. Si tratta di abbandono, diserzione. Parole impossibili per i cristiani”. Ecco allora che ci si interroga, davanti alle macerie di Notre-Dame: è questa l’occasione per uscire dalla nicchia e – per dirla con Guénois – “innescare una presa di coscienza” da parte dei cattolici francesi? Benedetto XVI, quando presiedette i Vespri nella cattedrale, undici anni fa, disse che quel luogo “s’innalza nel cuore della città come segno vivo della presenza di Dio in mezzo agli uomini” ed “è difficile non rendere grazie a Colui che ha creato la materia come anche lo spirito, per la bellezza dell’edificio che ci riunisce”. Giovanni Paolo II, celebrando lì la messa nel 1980, già vedeva i segni della ritirata e disse: “Auguro a tutti di intendere la domanda che Cristo ha rivolto una volta a Pietro: Mi ami tu? Ascolteremo noi questa domanda? Ne dipende l’avvenire dell’uomo e del mondo”. L’abbé Grosjean, e altri come lui, pensano che sia giunto il momento di rispondere.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.