Netanyahu festeggia a Tel Aviv la vittoria alle elezioni insieme alla moglie Sara (foto LaPresse)

Appunti israeliani per i partiti europei

Paola Peduzzi

L’ombrello di Netanyahu a destra (via dal centro), la tragedia a sinistra e i “sostituti”

Milano. Lo chiamano “King Bibi”, spesso senza sorridere, e Benjamin Netanyahu questo è oggi per Israele: il leader pronto per il suo quinto mandato, re se non di tutto il paese di certo del suo emisfero destro. Mentre in tutto il mondo le destre cercano di maneggiare le derive interne, di solito verso gli estremi, e si tormentano di domande su quel che sono e su quel che saranno – in Europa la dinamica è piuttosto chiara, basta vedere la sospensione di Viktor Orbán nel Ppe; in Italia l’abbiamo fatta più semplice: la Lega si è mangiata tutto – in Israele Netanyahu è riuscito a compattare sul suo Likud l’elettorato di destra, lasciando sempre meno spazio a quel che stava fuori, più a destra di lui. Un grande ombrello, che necessariamente ha spostato il proprio baricentro via dal centro, complice anche quell’alleanza internazionale che, partendo da Donald Trump in America e passando per Jair Bolsonaro in Brasile, sta trasformando le destre di buona parte del mondo. Identità e nazionalismo, “first” in una sola parola: la ricetta di Netanyahu è questa, assieme alla sicurezza ovviamente, che in Israele non si presta a complottismi e fake news che vanno forte tra i suoi alleati populisti. Gli altri partiti di destra più piccoli (25 seggi in tutto) sono sempre cruciali per fornire la maggioranza parlamentare al Likud, ma sono molto più remissivi e concilianti rispetto al passato: si attende ancora che Avigdor Lieberman sciolga la sua riserva di alleanza (ha cinque seggi da mettere in palio), ma il “fenomeno” libertario Feiglin, che era considerato l’ago della bilancia di questa tornata elettorale, non ha nemmeno superato la soglia di sbarramento. 

  

  

A sinistra si è invece consumata una tragedia, un’altra. Dei 19 seggi con cui partiva il già scalcagnato Partito laburista israeliano ne sono rimasti un terzo: 6. Persino la lista araba di estrazione comunista è andata leggermente meglio: 4,63 per cento contro il 4,46 del Labor (il numero dei seggi è uguale). Il declino non è certo una novità – anche se il leader del partito, Avy Gabbay nelle ultime settimane alimentava la speranza millantando “sorprese” che evidentemente non c’erano – e dopo il 1977 il Labor ha governato soltanto quando ha candidato dei generali. Sulla sicurezza l’offerta di sinistra non si è mai rivelata efficace, ma il problema sta anche e soprattutto sulle altre questioni, quella economica e quella sociale. Senza visione e con parecchie liti interne – è sempre così, quando ci si deve spartire una coperta corta – il Labor non ha avuto e non ha una prospettiva: come sarà Israele domani? La risposta non c’è stata, e per il partito che ha fondato lo stato ebraico e che l’ha governato ininterrottamente per i suoi primi trent’anni di vita questa mancata risposta è ancora più grave: è come un padre che nel momento di difficoltà non sa indicare una via al figlio, siamo quasi in zona imperdonabilità.

 

 

In questo il Labor israeliano assomiglia alle sinistre europee che stanno vivendo una delle fasi più deprimenti del millennio, rosicchiate via da partiti più radicali (è accaduto al Pasok greco ma anche al Partito socialista francese), da lotte interne o da offerte sostitutive. In Germania l’Spd, quartier generale della socialdemocrazia occidentale, ha perso elettori a destra – la working class scivolata verso la destra estremista dell’AfD – ma subisce anche una pressione considerata “sostitutiva” dai Verdi che si sono messi ad attrarre il voto giovane e urbano, cioè progressista. Non ci fosse il Psoe spagnolo a tenere alto l’entusiasmo dovremmo perdere le notti a studiare come fanno i socialisti romeni a resistere, o quelli finlandesi o quelli albanesi (anche il Labour britannico è messo bene, ma tifare per il corbynismo è comunque una scelta che non fa dormire bene). Anche in Israele di fatto c’è stata una sostituzione: il cosiddetto partito dei generali, Kahol Lavan, guidato da Benny Gantz è stato l’unico contrappeso a re Bibi. Non a caso, Netanyahu durante la campagna elettorale e pure quando le urne erano aperte ha detto: non votate Gantz, è di sinistra, sventolando lo spauracchio che va molto forte presso i suoi amici all’estero (vedi Trump e il “socialismo”).

 

Annunciando un governo stabile, rapido e di destra, Netanyahu ha detto che sarà il premier di tutti. Ecco, questo forse è l’eccesso di questa quinta riconferma: una coalizione con Gantz consegnerebbe sì a Israele un governo per tutti, potrebbe colmare la frattura partigiana e polarizzante che c’è nel paese, e costruirebbe anche l’interlocutore giusto (la destra non lo è di certo) in caso di un piano di pace con i palestinesi, se mai ce ne sarà uno patrocinato dal genero di Trump. Ma i numeri sono a destra e bastano, il re decide e questo non è un paese per il dialogo.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi