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Mentre il "fascista" Israele vota, Ramallah entra nel 15esimo anno di satrapia

Giulio Meotti

E a Gaza gli ascari di Hamas finivano di reprimere le più grandi (e uniche) proteste popolari in dodici anni di dittatura islamista nella Striscia (niente elezioni anche lì)

Roma. Lo spot virale in Israele ha avuto il volto della destrorsa Ayelet Shaked, uscente ministro della Giustizia. Si spruzza un profumo dal nome “Fascism”, mentre una voce femminile sussurra “riforma della giustizia” e “separazione dei poteri”. E conclude: “Profumo di democrazia”. Grande scandalo fra i sinceri democratici occidentali che strillano sulla “crisi della democrazia israeliana”. Intanto si perdevano la notizia dell’anno: mentre Israele votava, come fa da 71 anni, negli stessi giorni i palestinesi di Ramallah entravano nel 15esimo anno di satrapia del caro leader Abu Mazen senza elezioni (la sua presidenza è ufficialmente spirata nel 2009) e a Gaza gli ascari di Hamas finivano di reprimere le più grandi (e uniche) proteste popolari in dodici anni di dittatura islamista nella Striscia (niente elezioni anche lì). Ma si sa, come diceva Marco Pannella, “un palestinese diventa uomo solo se ha la fortuna di incontrare una pallottola israeliana”. L’unico membro della Lega araba che Freedom House ha considerato “democrazia” per anni sono le isole Comore, ottocentomila persone al largo delle coste africane. E in Israele, che doveva scegliere fra Bibi Netanyahu e Benny Gantz, tornavano alle urne come fanno da 71 anni gli arabi israeliani, il venti per cento della popolazione, con le loro liste e candidati. Israele è l’unico paese in medio oriente dove le donne arabe hanno sempre potuto votare e gli arabi votano ininterrottamente da sempre. La Knesset a Gerusalemme è l’unico Parlamento mediorientale dove i politici arabi possono alzarsi durante una seduta, accusare il proprio paese di fascismo e tornare la sera a casa con le proprie gambe. Non solo, ma la Corte suprema israeliana ha bandito un solo estremista politico in queste elezioni, l’israeliano kahanista Michael Ben-Ari e non uno degli arabo-israeliani che h24 attaccano il proprio paese. E va da sé che i palestinesi nell’area, da quelli che compongono il settanta per cento della popolazione della Giordania a quelli stipati nei campi profughi di Damasco sotto i bombardamenti “sbagliati” per far sintonizzare le antenne dell’opinione pubblica occidentale, osservavano con una certa invidia i propri fratelli arabo-israeliani recarsi ai seggi di Nazareth, Umm el Fahm e Haifa. Israele ha appena votato con un premier sotto inchiesta per corruzione, mentre Abu Mazen e Hamas elevavano la corruzione a sistema di potere nel silenzio assenso della comunità internazionale. Secondo Muhammad Rashid, consigliere economico di Yasser Arafat, Abu Mazen ha una ricchezza personale di cento milioni di dollari, da buon erede di Arafat, che aveva accumulato 1,3 miliardi. Non da meno il capo di Hamas Khaled Meshaal, che ha due miliardi nei conti nel Golfo. “Dal 1948, a noi arabi è stato insegnato che tutto ciò che dobbiamo fare è liberarci dello stato ebraico, e tutto il resto andrà bene”, ha scritto su Israel Hayom il giornalista giordano-palestinese Mudar Zahran. E’ l’articolo più onesto mai scritto da un intellettuale arabo. “Noi arabi abbiamo dato ai nostri dittatori carta bianca per impoverire, opprimere e distruggere tutti noi in nome della ‘grande lotta araba per porre fine all’entità sionista’. Il risultato è chiaro: mentre Israele ha fatto dieci nuove scoperte nel campo del cancro e dei trattamenti cardiaci negli ultimi due anni, noi arabi abbiamo sviluppato nuovi metodi di esecuzione”.

Grazie anche ai nostri sinceri democratici, i daltonici che, aprendo la mappa delle democrazie di Freedom House, dove si va dal verde intenso (Norvegia) al viola cupo (Arabia Saudita), non vedono quella macchiolina verde-democratica nell’immensa fascia delle violacee autocrazie islamiche, Israele, e che pensano che sradicando quell’“unico stato in eccesso al mondo” (Pierre-André Taguieff) il medio oriente diventerebbe un giardino di democrazia e diritti.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.