Mohammed Bin Salman e Donald Trump alla Casa Bianca (foto LaPresse)

La scelta di convivere con i mostri

Daniele Raineri

L’Amministrazione americana ha deciso di tenersi stretto il futuro sovrano saudita che usa la sega sui dissidenti, il governo italiano vorrebbe normalizzare i rapporti con la Siria. E’ il trionfo della rassegnazione

New York. E’ arrivata l’Era dell’assorbimento – o comunque la vogliamo chiamare – l’Era in cui i governi occidentali scelgono deliberatamente di assorbire qualsiasi orrore commesso da altri governi e andare avanti come se nulla fosse altrimenti il mondo s’inchioda (almeno così dicono loro). Due giorni fa il presidente americano, Donald Trump, ha scritto un comunicato ufficiale della Casa Bianca che non lascia dubbi: l’Amministrazione ha deciso di ignorare il rapporto della Cia che collega l’omicidio di Jamal Khashoggi, un editorialista del Washington Post, alla responsabilità del principe erede al trono saudita Mohammed bin Salman e quindi continuerà a comportarsi con lui da alleato sul piano strategico e da partner in affari per quel riguarda i giganteschi contratti d’acquisto di tecnologia militare.

 

Il rapporto della Cia afferma che si può dire con “high confidence” – quindi con un grado accettabile di affidabilità – che il principe saudita ha ordinato l’uccisione, ma il presidente americano pensa che sia più importante il legame personale che lui e il genero Jared Kushner hanno stretto con il principe l’anno scorso. Soprattutto pensa che se non agisse così i danni per l’America sarebbero molto più grandi dei benefici. I sauditi farebbero lo stesso molti affari, ma con Cina e Russia – che infatti non hanno detto una sillaba sul caso Khashoggi – e l’America perderebbe un cliente e un regime amico. Insomma, Trump ha deciso di comportarsi come il presidente russo Vladimir Putin, che in Siria continua a sostenere il suo alleato locale, il presidente siriano Bashar el Assad e a ignorare in modo sistematico le accuse di crimini di guerra contro di lui.

 

Si tratta di una novità per gli Stati Uniti, che spesso in passato hanno fatto passi difficili per evitare di diventare sponsor di violenze contro i civili. Nel febbraio 2011 si racconta che il padre di Bin Salman, re Abdullah, ebbe un malore dalla rabbia mentre al telefono ascoltava il presidente Barack Obama dire che l’America non avrebbe appoggiato il presidente egiziano Hosni Mubarak se avesse deciso di usare l’esercito contro i manifestanti di piazza Tahrir. Il re saudita considerò le parole di Obama come un tradimento dell’amicizia americana con i paesi arabi del Golfo. La stessa Amministrazione Obama però ha fatto scelte molto controverse: molti commentatori sostengono che non sia intervenuta mai contro gli orrori della guerra civile in Siria per non guastare i negoziati con l’Iran, perché Obama ambiva a firmare l’accordo sul nucleare e farlo diventare il suo successo storico in politica estera. “E’ un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”, come avrebbe detto nel 1939 Franklin Delano Roosevelt di Somoza, dittatore anticomunista del Nicaragua, ma pare che sia un detto apocrifo che nessuno ha mai pronunciato. La versione aggiornata è: “Ha fatto a pezzi con una sega un editorialista del Washington Post, ma è il nostro partner commerciale e strategico nel Golfo”. C’è da vedere se funzionerà, perché prima o poi l’audio dell’uccisione salterà fuori e questi regimi tentano sempre di comprimere forze che, come i fiumi carsici, trovano una loro strada.

   

La settimana scorsa i Cinque stelle hanno presentato un’interrogazione ai ministri degli Esteri e dell’Interno per riaprire l’ambasciata italiana a Damasco e quella siriana a Roma perché “l’Italia deve promuovere azioni concrete per la pace e la normalizzazione in Siria, ripristinando regolari rapporti diplomatici con il governo siriano”. Sarebbe un caso Khashoggi moltiplicato per centomila.

  

Secondo le organizzazioni per i diritti umani e le denunce delle famiglie, a partire dal 2011 non meno di ottantamila dissidenti siriani sono spariti nelle prigioni del governo e non sono mai tornati. Il numero potrebbe essere molto più alto. Non si parla di vittime della guerra civile, morti negli scontri o nei bombardamenti, ma di persone arrestate durante le proteste o per motivi ancora meno gravi – basta scrivere una dichiarazione contro il governo su Facebook – e uccisi dalle forze di sicurezza. Un fotografo militare incaricato di scattare la foto identificativa di ciascun morto ha disertato e ha portato in occidente tutte le immagini che ha archiviato per lavoro tra il 2011 e il 2013 in due ospedali militari vicino a Damasco. Sono cinquantacinquemila scatti che riguardano un totale di undicimila persone, sono considerati autentici dagli esperti in immagini e però sono soltanto una porzione di quello che continua a succedere in Siria (per le immagini basta cercare “Caesar”, che è il nome in codice del fotografo: i corpi presentano segni di tortura e di malnutrizione).

 

Inoltre da febbraio cambia il meccanismo d’indagine dell’Opcw, l’Organizzazione internazionale che indaga sugli attacchi con armi chimiche: potrà affermare non soltanto se c’è stato un attacco chimico, ma anche chi è il responsabile (la risposta è: l’esercito di Assad, a meno che non crediate alle versioni alternative inventate dai russi e dai siriani, che sono ancora più patetiche di quelle saudite). I motivi di Trump sono evidenti, perché invece l’Italia si dovrebbe ficcare in questa crisi non è ancora chiaro.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)