Donald Trump con Mohammed bin Salman (foto LaPresse)

Bipartisan contro Bin Salman

Daniele Raineri

La guerra in Yemen fa votare contro Trump persino i repubblicani

New York. Due giorni fa il Senato americano a maggioranza repubblicana ha votato l’approvazione della S.J. Resolution 54, una risoluzione che impegna l’America a rimuovere tutte le forze militari coinvolte nella guerra in corso in Yemen. Si tratta di un colpo bipartisan – che però potrebbe non avere conseguenze pratiche – contro l’alleanza militare, politica e commerciale tra l’Amministrazione Trump e l’Arabia Saudita del principe erede al trono Mohammed bin Salman. Il principe, oltre a essere l’architetto dell’intervento militare saudita in Yemen cominciato nel marzo 2015, è stato di recente accusato di essere il mandante dell’omicidio di un editorialista, Jamal Khashoggi, attirato dentro al consolato saudita a Istanbul in Turchia e poi ucciso e smembrato da una squadra delle forze di sicurezza del regno. A marzo la stessa risoluzione non era passata, perché il principe Bin Salman era in visita a Washington e pareva quasi un atto di scortesia mettere in discussione l’alleanza militare con lui in città. In nove mesi la situazione è molto cambiata. Questa volta la risoluzione del Senato americano è passata 63 voti a 37 perché 14 senatori repubblicani hanno votato contro la volontà dell’Amministrazione Trump. C’è un significato politico molto importante: i senatori hanno rotto pubblicamente con la linea del presidente, che invece ha dichiarato di volere restare a ogni costo al fianco degli alleati sauditi. 

  

L’insoddisfazione dei senatori è stata esasperata dal briefing a porte chiuse organizzato prima del voto dal segretario di stato, Mike Pompeo, e dal segretario alla Difesa, Jim Mattis, che in teoria aveva lo scopo di convincere gli scettici che le relazioni con l’Arabia Saudita sono troppo importanti per essere trascurate e che l’America ha soltanto un ruolo marginale nella guerra in Yemen. I senatori però avrebbero voluto ascoltare il direttore della Cia, Gina Haspel, che invece non è potuta andare al Congresso per ordine esplicito di Trump.

   

La Haspel era volata in Turchia pochi giorni dopo l’inizio del caso Khashoggi per ricevere dai turchi le prove della responsabilità saudita, inclusa l’ormai famosa registrazione lunga qualche minuto dell’uccisione del dissidente. La Cia due settimane fa ha fatto trapelare sui giornali la propria posizione sulla vicenda: si dice “molto sicura” che il mandante dell’omicidio sia il principe erede al trono Bin Salman. E’ probabile che la Cia abbia organizzato questa fuga di notizie per vincere la riluttanza del presidente, ma Trump ha deciso di ignorare la propria intelligence e non ha permesso al suo direttore di parlare con i senatori. Persino un sostenitore strenuo come il senatore Lindsey Graham, consigliere informale del presidente per quel che riguarda il medio oriente, dice che se non riuscirà a parlare con la Haspel allora non si rifiuterà di votare a tutte le prossime scadenze discusse in Senato, anche quelle che non c’entrano nulla con la politica estera.

  

Per quanto significativo sul piano politico, sul piano fattuale il voto non conterà molto. L’Amministrazione Trump dice che non ci sono forze militari impegnate fisicamente al fianco dei sauditi in Yemen quindi non c’è nessuno da ritirare ed è convincente. Il Pentagono ha da poco smesso di fare missioni aeree di rifornimento per i bombardieri sauditi proprio per evitare le accuse di essere coinvolto da vicino in Yemen e ora si limita a passare intelligence e aiuto logistico. Il New York Times a maggio aveva rivelato che alcune squadre dei Berretti verdi, le forze speciali dell’esercito americano, erano in Yemen per aiutare i sauditi a individuare e distruggere le rampe dei missili usati dagli Houthi per colpire le città dell’Arabia Saudita a centinaia di chilometri di distanza dal confine. C’è però un altro punto sollevato dall’Amministrazione americana: le poche forze sul terreno sono anche dedicate alla lotta contro al Qaida e lo Stato islamico che infestano il paese – e quindi non sono soggette alle decisioni del Senato. Inoltre il presidente può mettere il veto alla risoluzione e questo vuol dire che il contrasto tra Casa Bianca e Senato potrebbe diventare un caso legale da risolvere davanti a una corte (infine: il fatto che i sauditi facciano cose molto brutte non vuol dire che i loro nemici sul terreno siano delle brave persone e questo è un aspetto molto trascurato della guerra in Yemen).

  

Il sostegno bipartisan alla fine del coinvolgimento americano in Yemen potrebbe diventare ancora più dannoso per Trump a partire da gennaio, quando il Congresso cambierà secondo i risultati del voto di metà mandato e ci sarà una maggioranza forte dei democratici alla Camera. Lo Yemen potrebbe diventare il fronte che imbarazza il presidente, ancor più dell’Afghanistan, dove ci sono truppe americane effettivamente impegnate in combattimento. Le cose vanno molto male perché i talebani stanno vincendo ma almeno i senatori non hanno una posizione forte contro le operazioni – almeno per ora.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)