Un uomo indossa una maschera con il volto di Jamal Khashoggi (foto LaPresse)

Le conseguenze dell'impunità

Paola Peduzzi

C’era una volta la difesa dei diritti umani. Il caso del ricercatore inglese e la violenza con la frusta nelle carceri saudite (e di tutti i regimi)

Milano. Cinque minuti davanti al giudice, senza l’avvocato, e poi la sentenza: prigione a vita. Matthew Hedges, ricercatore britannico di 31 anni arrestato a Dubai sei mesi fa, è stato condannato per spionaggio da una corte di Abu Dhabi, negli Emirati arabi uniti: “Ha condotto attività di spionaggio negli Emirati – dice la corte nella sentenza – e ha fornito informazioni sensibili sulla sicurezza e l’intelligence a paesi terzi”. Il governo di Londra aveva chiesto più volte al principe Mohammed bin Zayed e al ministro degli Esteri Abdullah bin Zayed di ritirare le accuse contro Hedges e di liberarlo: il ricercatore è stato per cinque mesi in isolamento, per qualche tempo con un faro puntato sugli occhi per non farlo dormire, e il 29 ottobre è stato rilasciato su cauzione, messo ai domiciliari a Dubai con un braccialetto alla caviglia per monitorare i suoi spostamenti. Ha attacchi di panico e sua moglie, che fin dall’inizio ha fatto pressioni sul governo inglese perché dicesse agli emiratini che Hedges non è una spia, dice che teme per la sua vita. C’è la possibilità di fare appello entro 30 giorni e rivedere la condanna, ma per il momento le pressioni di Londra non hanno sortito alcun effetto, e più passa il tempo più il costo di evitare lo scontro si alza – a vantaggio degli Emirati.

 

Ricercatori e crisi diplomatiche suonano tragicamente familiari in Italia: Giulio Regeni è stato ucciso perché considerato una spia, ed era un ricercatore. Dopo un balletto diplomatico piuttosto scomposto, è stata accettata la versione egiziana, e i rapporti con il Cairo sono tornati buoni (il presidente al Sisi si è speso molto per far venire al vertice di Palermo sulla Libia il generale Haftar, cioè per mascherare l’insuccesso di quel vertice). La realpolitik funziona così, è un calcolo di convenienza che dà la priorità alla stabilità, ma finisce comunque per alterare gli equilibri, soltanto che ad approfittarsene sono i regimi. Se le linee rosse vengono violate e non accade nulla – Bashar el Assad è a Damasco a pianificare la riconquista di tutta la Siria –, se un giornalista viene ucciso e smembrato dentro a un consolato saudita e non accade nulla, se un commando russo fa un attacco con un gas letale in un paese della Nato e non accade quasi nulla, perché mai gli emiratini dovrebbero dare ascolto alle richieste del Regno Unito? Meglio alzare la posta, meglio calcolare cosa si ottiene in cambio. In questo la Turchia sul caso Khashoggi ha scritto il manuale di riferimento (sta per ottenere anche l’estradizione del detestato Fethullah Gülen). 

 

Semmai andrebbero valutate le conseguenze di questi baratti sui regimi stessi. Il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo agghiacciante su quel che avviene nelle carceri saudite. Mentre il principe-star Mohammed bin Salman ha ammaliato il mondo con la sua giovane età e la sua retorica riformatrice, e ha rinsaldato la propria alleanza con gli Stati Uniti e Israele, è iniziata una campagna “anti corruzione” in Arabia Saudita che si è trasformata nell’eliminazione di molti critici del regno – con la scusa della corruzione si fa spesso pulizia di dissidenti. Secondo Human Rights Watch, le persone detenute per più di sei mesi senza processo erano 294 nel 2014 e sono oggi almeno 2.305 (il dato è di inizio 2018). Almeno otto delle diciotto attiviste che sono state arrestate dall’inizio dell’anno – nell’Arabia Saudita in cui le donne stanno meglio: guidano! – sono state torturate (con scariche elettriche e fruste) e una è stata violentata. Tutte sono state messe in isolamento per settimane, con i fari e tutto il kit per vietare il sonno, ma nessuna è stata formalmente condannata per qualche crimine.

 

Di storie simili, nei report delle ong e delle Nazioni Unite, ce ne sono molte, in tutti i paesi del Golfo, in tutti i regimi, ma ormai non fanno più sobbalzare nessuno: se di fronte all’omicidio Khashoggi c’è la speranza, più o meno esplicita, che passi presto e senza troppe conseguenze, figurarsi se c’è la determinazione necessaria per denunciare le violenze nelle carceri, le uccisioni, le torture, gli stupri, i processi che durano meno di cinque minuti, quando ci sono. Il costo di non fare nulla è alto, così come il costo dei baratti, ma per buona parte del mondo questa è la stabilità.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi