La Bosnia oggi. Bambini durante la preghiera davanti alla moschea di Gazi-Husrev Beg nella capitale Sarajevo (foto LaPresse)

La guerra nella ex Jugoslavia vista dai ragazzini

Marco Archetti

I dieci anni di Jelena a Vukovar quando tutto cominciò. Il museo di Sarajevo, diario di una generazione

La fine è nota, la foto anche. Parigi, 14 dicembre 1995: il leader serbo Slobodan Miloševic, il croato Franjo Tudjman e il bosniaco Alija Izetbegović sono seduti al tavolo della Conferenza di Pace sull’ex Yugoslavia. Incorniciati da tendaggi scarlatti e immersi in una calda luce color ruggine hanno appena firmato le 100 pagine di mappe e le 65 di condizioni, nucleo di un’intesa raggiunta tre settimane prima nella base aerea Wright-Patterson di Dayton, Ohio. Al momento dello scatto stanno applaudendo se stessi e guardando in tre direzioni differenti mentre, alle loro spalle, sei primi ministri e presidenti battono le mani più convintamente, con espressioni tra il paternalistico e il raggiante.

 

  

Il mese precedente, in conferenza stampa, nell’annunciare quello stesso accordo poi firmato a Parigi, Bill Clinton aveva proclamato che la Bosnia sarebbe finalmente passata “dagli orrori della guerra alle promesse della pace”, eppure fino a mezz’ora prima il presidente aveva in tasca due discorsi: uno che deplorava il fallimento delle trattative, l’altro che ne celebrava il successo. Nella voragine tra queste due possibilità – plausibili nella stessa misura, plausibili fino all’ultimo istante – la cruda verità di una guerra atroce, un abominio pianificato con cinismo da una classe politica che, implicata nello scandalo della “bolla Agrokomerc” (un’azienda di prodotti agroindustriali esposta per 350 milioni di dollari in cambiali, una Tangentopoli slava), non volle fare i conti con se stessa e preferì appiccare il fuoco a tutta la casa. Approfittando del disorientamento e della crisi economica, i più subdoli capibastone agitarono la clava populista, guadagnarono spazio politico cavalcando le insicurezze collettive e fomentando l’odio antiburocratico, lavorarono alla produzione del Nemico (sempre esterno) e manipolarono fatti, notizie, pagine di Storia col solo obiettivo di trasformare lo vita civile in Lite Permanente, eccitarono la tensione e ne amministrarono sapientemente il crescendo allucinatorio, lasciando dilagare l’irrazionalità e sfruttando l’acceleratore di particelle dell’odio etnico.

 

“E dire che prima della guerra nessun bambino sapeva cosa volesse dire etnia o nazionalità”, mi giura Jelena Zera, imprenditrice di 37 anni – al tempo del conflitto ne aveva dieci – e cofondatrice dell’Associazione figli delle vittime di guerra. La incontro proprio a Vukovar, prima città da cui fiottò il sangue della sfrenata mattanza balcanica, prima città europea distrutta dopo la Seconda guerra mondiale. Percorriamo in automobile la strada che porta verso il centro, e tra case bombardate rotte come cocci e muri in rovina impennacchiati di fiori, Jelena ricorda. “Una volta qui c’erano ucraini, serbi, russi, rom, tedeschi, croati, e vivevano tutti insieme. Io non sapevo nemmeno da dove venivano i genitori dei miei compagni di classe... La città era produttiva, con un’industria calzaturiera di 20 mila dipendenti che dava lavoro a tutti gli abitanti dei villaggi circostanti. Ora l’economia è in difficoltà, i bambini serbi frequentano scuole serbe e i croati quelle croate. Ora ci sono programmi serbi e programmi croati”. E mi indica la Torre dell’acquedotto. Durante il conflitto fu la grande tacca di riferimento per l’alzo dei cannoni delle milizie serbe e fino a due anni fa si ergeva sinistra, traforata e decadente. Oggi è stampellata, incartata e in ristrutturazione. “Dicono che sarà pronta per marzo, ma per anni hanno anche detto che l’hotel Dunav sarebbe stato comprato da Hilton, che ne avrebbe costruito uno di cinquanta piani e che sarebbe stato più alto della torre…”.

 

I più subdoli lavorarono alla produzione del Nemico. “E dire che prima nessun bambino sapeva cosa volesse dire etnia o nazionalità”

Invece l’hotel è ancora lì, sciancato e abbandonato. Guarda il tratto di Danubio all’orizzonte del quale splende la verdeggiante isola Ada, uno spicchio di terra divisa tra Serbia e Croazia. “I serbi si sono impegnati a non utilizzarla”, puntualizza Jelena mentre stringe gli occhi, sventola le braccia e saluta qualcuno. “E’ mio marito. Anche lui, da bambino, ha perso il padre durante l’assedio”. Suo marito è un puntino con maglietta rossa sotto un salice, bagnante da sabato pomeriggio in una Vukovar che riprova a credere nella normalità. Il centro della città ha il volto di questo sforzo: in gran parte ricostruito, si sviluppa su un lungofiume trapunto di locali gremiti di mamme che allattano e di ragazzi che sorseggiano bicchieri di bambus, vino rosso diluito con Coca-Cola. Ma è inevitabile: se si confronta la situazione attuale con gli scatti della guerra – nella mente ne ho uno di Ron Haviv che immortalava una mucca strillante nell’androne di un palazzo sbriciolato da un’esplosione, una Guernica in versione balcanica – viene il sospetto che, alla fin fine, la Storia non sia altro che questo assurdo susseguirsi di macelleria e bar all’aperto, macelleria e bar all’aperto.

 

Ci sediamo per una birra: alle nostre spalle, sul lato della collina, la crostata di tetti di una miniaturistica Hollywood country-croata. “Quella era la prima linea”, mi informa Jelena, “oggi è un quartiere bene. Tutto cominciò nell’agosto del ’91, quando hanno portato al mare tutti i bambini con dieci pullman. Dovevamo restarci una settimana, ma a ogni weekend se ne aggiungeva un’altra. Il ritorno a casa era sempre rimandato e nessuno di noi capiva perché. Siamo rientrati a settembre, la città aveva perso due terzi degli abitanti e i serbi avanzavano. In quei giorni continuavamo a cambiare casa. Mio padre l’aveva trasformato in un gioco e mi diceva: stanotte vai a dormire da tua cugina. Ma aggiungeva: occhio a non dormire vicino alla finestra. Oppure: stanotte ci nascondiamo tutti e dormiamo sotto il letto!”

 

Nel War Childhood Museum si trova di tutto. Aperto nel 2016, quest’anno ha ricevuto il Council of Europe Museum Prize

Finché non c’è stato più nulla da fare, nulla da inventare, e una truppa selvaggia ha sfondato in città. “Ricordo una colonna di carri armati diretti verso casa nostra. Mia madre gridò di scappare, e io e mio fratello ci siamo messi a correre per strada mentre ci sparavano. Non sapevamo dove andare, attraversare i campi era pericoloso perché erano tutti minati. Per strada correvano auto zeppe di bambini serbi che cercavano di attraversare il confine. Tutto prendeva fuoco”. Poi i miliziani hanno fatto irruzione in ospedale. “Mio padre guidava le ambulanze e come tutti gli altri, malati e lavoratori, ci è rimasto intrappolato: nei sotterranei li hanno torturati e ammazzati. E li hanno portati là”. Là sono i tetri capannoni della fattoria di Ovcara, qualche chilometro fuori città, riadattati a campo di concentramento. Un carico di 261 esseri umani: quelli ancora vivi sono stati fucilati e buttati in una discarica di immondizia. “All’appello mancano i resti di 60 persone”, dice Jelena. “Tra questi ci sono anche i genitori di alcuni miei compagni di scuola… Possibile che nessuno sappia che fine hanno fatto?”.

 

Il Memoriale di Ovcara lascia davvero senza fiato: si entra e ci si ritrova al buio completo. Nel silenzio, alle pareti, appaiono e scompaiono, uno dopo l’altro, illuminandosi e spegnendosi lentamente, i volti delle vittime. E così, mentre pian piano ti circonda la folla fioca di questi Mihailo, Andrija o Tomislav, mentre affiorano una dopo l’altra le silenziose fattezze di un Marko o di un Antun, ecco che i profili dei loro visi, dentro di te, diventano congetture, si fanno storie che puoi solo immaginare, come puoi solo immaginare quelle dei figli di tutti questi Zeljko e Goran che potrebbero essere tuo padre. Cosa ne sarebbe stato della mia infanzia se l’Italia fosse precipitata in una guerra tanto atroce?

 

Da quel momento, unite dalla tragedia di un assedio – sebbene uno di 87 giorni e l’altro di tre anni e mezzo, pur essendo una in Croazia e l’altra in Bosnia, l’una grande e l’altra piccola – ecco che Vukovar e Sarajevo mi hanno raccontato la stessa strage d’infanzia e Jelena si è trasformata in tutte le bambine e i bambini di cui avrei letto qualche giorno dopo nelle didascalie del War Childhood Museum. Aperto il 4 maggio 2016 a Sarajevo, quest’anno ha ricevuto il Council of Europe Museum Prize. Il suo fondatore è Jasminko Halilovic. Aveva quattro anni all’inizio dell’assedio della città e oggi è entrato nella prestigiosa lista dei 30 under 30 di Forbes. Sua sorella è nata due giorni dopo la firma degli Accordi di Dayton.

 

Nel 2010 Jasminko ha dato corpo all’idea di pubblicare un appello sul blog “Sarajevo way”, rivolgendosi a tutti coloro che avevano vissuto l’infanzia sotto il tiro incrociato dei cecchini affinché la raccontassero in 160 caratteri. Obiettivo? Comporre il romanzo di formazione di una generazione divisa dal delirio della politica ma unita dalla realtà della guerra. Quando si rese conto che le risposte arrivavano anche da Mostar, Tuzla, Banja Luka e oltre, Jasminko capì che quel romanzo avrebbe potuto essere qualcosa di più: la sterminata pagina-mosaico dei mille significati di una stessa, travagliata identità.

 

Locali gremiti di mamme che allattano e di ragazzi che sorseggiano vino e Coca-Cola. Vukovar riprova a credere nella normalità

Nacque prima il libro, poi vennero gli oggetti e il museo, in pieno ossequio al canone-Pamuk, il quale, ispirandolo, aveva scritto: “Le storie ordinarie degli individui possono essere più ricche e significative. La sfida è riempire i musei con le storie dei singoli”. Ed ecco le storie dei singoli. Ecco gli oggetti e la quotidianità di coloro che, nati tra il 1976 e il 1988, hanno vissuto in guerra, il tutto corredato da didascalie semplici e perfette, che hanno il dono, il potere, la grazia di parlare un linguaggio universale. Nel guardare la collezione degli incarti di ignote barrette di cioccolata di una sconosciuta Emina (“mi permettevano di avere una connessione con un’infanzia normale”), quella di un Kinder mi ha fatto tremare dalla testa ai piedi: all’improvviso un frammento tirava dentro anche me, anche la mia vita, in quel grande catalogo della fragilità del destino altrui. Nel museo si trova di tutto: vecchi vestiti (Naba’a: “Questa giacca mi teneva caldo durate i freddi inverni, è stata tramandata da mia nonna a mia cugina e da mia cugina a me. Avevamo una bellissima vita”) e piccole valigie malridotte (Iva: “Stavano sparando sulla città. Papà ha detto: domani andate al mare! Ho fatto la valigia e con mia madre ci siamo unite al convoglio che lasciava la città. Degli uomini con maschere nere hanno fermato il convoglio e ci hanno tenute in ostaggio per tre giorni. Tutte le mie memorie sono in questa valigia”), lavagnette sventrate (Ajla: “Non potevamo uscire. I giocattoli erano miraggi durante la guerra. Passavo i giorni a casa frequentando una scuola immaginaria. Nel 1994 una granata è caduta nell’appartamento dove vivevamo. Mio fratello aveva pochi giorni. Abbiamo trovato tre schegge della granata nella sua culla. Una ha colpito anche la mia lavagna”) e libretti logori (Azra: “Ho imparato a leggere a causa della guerra, divoravo libri. Ogni ora passata a leggere era un’ora senza guerra”), piccoli diari (Belma: “Mia sorella scriveva un diario di guerra. E’ stata ferita il giorno dopo aver partecipato a una gara di ballo ed è morta pochi giorni dopo. Aveva solo 12 anni”) e una Barbie spelacchiata (Sumeja: “Un soldato vendette a mia mamma, che aveva fatto tutto l’inverno con scarpette estive, degli stivali impermeabili. Mentre andavamo da mia zia, vidi un uomo che stringeva in mano questa Barbie. Scoppiai a piangere, la volevo! Mia madre scambiò gli stivali con la Barbie”). E poi una bicicletta rossa, un orsacchiotto semi masticato, il brandello di coperta usato per schermare le finestre e non farsi impallinare dai cecchini, la rivista in rima Ananas scritta da un gruppo di ragazzini del quartiere sarajevese di Ciglane e una corazza dipinta su un cartone da pizza (“Durante un periodo di tregua un cecchino ha ucciso mio fratello mentre la colorava, e con lui la mia fanciullezza”), ed è tutto lì, tutto vero, tutto simile agli oggetti che hanno popolato anche le nostre vite, in questo grande inventario di infanzie che hanno attraversato l’orrore, la paura, ma anche la normalità (Nejra: “Uh! A food parcel with M&M’s!”).

 

Azra: “Ho imparato a leggere a causa della guerra, divoravo libri. Ogni ora passata a leggere era un’ora senza guerra”

“Non si può dimenticare. Ma non si può nemmeno vivere con tutto questo sempre davanti agli occhi”, mi ha detto Jelena quel giorno a Ovcara, davanti alla fossa comune in cui è stato gettato anche suo padre. E sarà macelleria, saranno bar all’aperto, sarà ancora la foto di qualche leader politico che, a un tavolo ufficiale, applaudirà se stesso per aver estinto lo stesso incendio che ha appiccato, ma la Storia è anche altro: un piccolo museo capace di raccontare tutto il resto, come la grande domanda di Ivana, classe 1983, ferita durante il conflitto: “Mom, why me?”.