Il memoriale di Potocari (foto LaPresse)

L'eterno martirio della Bosnia

Marco Archetti

Viaggio nel cuore della vecchia Yugoslavia, dove l’Europa è un richiamo ambiguo

A Gornij Vakuf, Bosnia centrale, c’è una fabbrica abbandonata, un parallelepipedone grigio azzurro che presidia un terreno di sterpaglie dai bordi del quale si snoda una strada – la via dei diamanti – che risale verso il monte Radovan. “E’ qui che aveva sede l’UNPROFOR,” racconta il presidente dell’Ambasciata di democrazia locale di Brescia a Zavidovići, Agostino Zanotti, indicandomi la facciata su cui ancora resiste la scritta Un, pennellata a vernice bianca. Il 29 maggio 1993, all’altezza di questo fabbricone oggi circondato da una necropoli di bidoni arrugginiti, il convoglio umanitario sul quale viaggiava ottenne il via libera dai Caschi blu. I cooperanti (con Zanotti c’erano il fotografo Cristian Penocchio, il giornalista Guido Puletti, il volontario Sergio Lana e l’imprenditore Fabio Moreni) erano diretti a Zavidovići, piccolo paese incoronato da monti lungo i quali, rotta la tregua tra croati e musulmani e rotta anche l’unità tra serbi, si stava attestando un’incandescente prima linea. Tortuoso segmento della direttrice Spalato-Tuzla, la via dei diamanti era l’unica non sequestrata dai belligeranti: attraverso di essa, infilandosi tra angusti canyon e rocce imponenti, seguendo le linee impervie dei corridoi umanitari, il convoglio sarebbe arrivato a destinazione. Ma dopo qualche chilometro i cinque italiani vennero assaltati da un manipolo di irregolari e condotti a forza, a bordo di un carretto rimorchiato da un trattore, in un luogo sperduto tra i boschi. Ad attenderli, una cricca poco rassicurante.

 

“Nessuno di quella banda”, ricorda Zanotti, “sembrava prendere la nostra vita sul serio”. Hanefija Prijić, il comandante Paraga, berretto verde e mezzaluna, si presentò circondato da un gruppo di lugubri luogotenenti. “Ridevano, confabulavano e ci guardavano. Io speravo che, dopo averci derubato, ci avrebbero lasciato andare. Invece ci scortarono in un altro luogo, ancora più remoto. Anche Paraga ci accompagnò, viaggiando in auto con la sua donna. Ricordo un soldato che, con un triplice caricatore, mi guardava e cantava una nenia inquietante. A quel punto Sergio chiese a Fabio cosa avremmo dovuto fare. Fabio rispose: ‘Pregare Dio’”.

 

Potocari, il Memoriale che ricorda il genocidio di 8.372 musulmani nel luglio del 1995. Un mare di steli bianche, interminabile

Zanotti racconta senza soluzione di continuità, con la precisione e l’accuratezza di chi, da quel giorno, ha giurato qualcosa alle vite dei suoi amici. “Quando ci hanno condotto in fila indiana lungo un sentiero che terminava con uno spiazzo, abbiamo capito che ci avrebbero ucciso. Guido cadde per primo: tre colpi singoli di kalashnikov che echeggiarono nell’aria vuota. Fabio gridò: “Perché?”, e spararono anche a lui. Io e Cristian fuggimmo tra il sibilare delle pallottole. Ebbi solo il tempo di gridare a Sergio di fare lo stesso, poi mi misi a correre e mi buttai in un torrente gelido, simulando la morte. I miliziani non smisero un momento di cercarmi, sentivo le loro voci sopra di me. Non mi trovarono. A notte fonda decisi di seguire il corso di un torrente, immaginando che confluisse in un fiume che mi avrebbe permesso di arrivare in città. Ma scivolai e mi ferii. Allora attraversai un campo sperando con tutto me stesso che non fosse minato. Era ormai l’alba quando arrivai in un villaggio: insanguinato, sporco e proveniente dalle zone della prima linea, cascai in bocca a un gruppo di soldati che, nel vedermi, puntò i fucili. “Se volete” dissi sfinito, “ammazzatemi. Io non ce la faccio più”. Ma uno di loro aveva fatto il muratore in Italia, tradusse le mie parole e ordinò di non sparare. Uno, però, sbraitò: “Italiani fascisti!”, e fece segno di volermi colpire, poi qualcosa lo fece desistere. Allora mi portarono in una casermetta, mi diedero da mangiare, e lì, indossando i vestiti di un soldato, precipitai in un sonno di piombo. Il giorno dopo andai al comando di Bugojno e tornammo sul luogo dei fatti, ma la nostra jeep si arenò nel fango. Chiamammo la base e la base non rispose mai, così tornammo indietro, mi consegnarono all’Armija e io ribadii che non me ne sarei andato finché non avessi recuperato i miei amici. Girammo per le campagne coi megafoni, li chiamai uno per uno. Trovammo vivo Cristian, che aveva passato quarantotto ore, terrorizzato, dentro un cespuglio. Fu lui a raccontarmi la sorte degli altri”.

 

Mentre pulisce dalle erbacce la lapide che, lungo la via dei diamanti, li ricorda, Zanotti mi racconta il seguito: il processo a Prijć in un’aula di Travnik e la condanna a 15 anni per crimini di guerra. Il paramilitare ne sconterà 12, verrà arrestato a Dortmund, infine portato a Brescia dove si riaprirà un procedimento a suo carico e gli verrà comminato l’ergastolo. Tra ricorsi e alterne vicende, poco più di un mese fa, precisamente il 28 agosto, Prijić è tornato in libertà, ma immediatamente riarrestato in Bosnia con l’accusa di falsificazione documenti.

 

“A guerra finita”, mi fa Zanotti in una smorfia, “ho reincontrato l’ispettore europeo che ci aveva dato il via libera quel giorno. E lo sai cosa mi ha detto? ‘Eh sì, lo sapevamo che quel losco personaggio girava da quelle parti combinandone di tutti i colori…’”. Terribile, ma in fondo normale: una delle tante dimostrazioni di inadeguatezza delle istituzioni internazionali durante quella guerra. Decido di lasciare solo Agostino e di percorrere a piedi lo sterrato lungo il quale i cinque furono dirottati quel giorno. Mi inoltro per trecento metri e mi viene in mente una frase di Ivo Andricć: “Su questi sentieri che il vento spazza, la pioggia lava e il sole infetta, sentieri sui quali si incontrano solo bestie sofferenti e uomini dai volti duri, ho fondato il mio pensiero sulla bellezza dell’universo”.

 

Tre anni per i risultati del censimento. “Pare che siamo in quattro milioni, ma in giro si dice abbiano contato anche i morti”

La mulattiera penetra in un groviglio di alberi, scompare, riappare, e poi, dopo una curva, se la beve il buio. E’ questa – viene da chiedersi – la Bosnia che qualcuno, un tempo, ha sognato? Non la regione svenduta e assediata di una Yugoslavia esplosa e martirizzata da crudeli militari e paramilitari (“lunghe fedine penali in costume patriottico” li definì Francesco Strazzari), ma il cuore di ciò che, largheggiando di manica utopica, avrebbe potuto essere: il centro di una terra antica e nuova, cosmopolita e unita consensualmente e democraticamente, la terra auspicata da Pedrag Matvejevićc e per me simboleggiata, a Mostar, dal meraviglioso Monumento ai Partigiani di Bogdan Bogdanovic, che non volle fregiarlo di alcun simbolo politico o etnico ma solo di significati in dialogo con l’assoluto e l’universale (al momento è in stato di abbandono). In questa regione si soffre, si è sofferto. Qui la storia e la geografia si sfidano continuamente. Qui si è aperto e chiuso il Novecento. E da qui ricomincerà il futuro: Bihacć, insieme alla vicina Velika Kladuša, forma una striscia di terra che da gennaio a oggi è stata percorsa da 10.000 migranti, un esercito di sventurati che pur di tentare l’ingresso in Europa ha attraversato zone non ancora sminate. La situazione è mal gestita, perpetui i veti incrociati, le emergenze sanitarie numerose e in agguato. E intanto, in questa Bosnia tutt’altro che risolta, tutt’altro che semplificata e in crisi economica nera, il 7 ottobre si vota.

 

“Per spiegarti la situazione”, mi racconta Sladjan Illicć, cooperante di Zavidovici, mentre sediamo in un bar volonterosamente alla moda, “ti riferisco questa battuta che gira: la Bosnia, passo dopo passo, sta entrando nell’Unione europea”. Fa una pausa e aggiunge: “Cinquantamila persone all’anno”. Ridiamo. L’ironia, gli dico, è l’unica dimostrazione di forza che ammiro. Sladjan si fa serio e dice che Zavidovići è solo una delle facce della sottaciuta tragedia politica nazionale in corso. “Cominciamo dall’inizio? Il sistema elettorale: è assurdo già quello delle comunali. Eleggiamo il sindaco direttamente, ma indipendentemente dal partito per cui milita. E spesso abbiamo sindaci senza maggioranza, in totale paralisi politica”.

 

Tra pochi giorni i bosniaci voteranno i tre membri della Presidenza nazionale. Ogni etnia (croata, serba, bosgnacca) sceglierà il proprio rappresentante, che la presiederà per tre mesi, a rotazione con gli altri. I membri non potranno decidere nulla se non di concerto e ovviamente non concerteranno molto. “E dire che non siamo nemmeno tanti…”, sbuffa ironico Sladjan. “Nel 2013 c’è stato un censimento. Ci sono voluti tre anni per i risultati. Pare che siamo in quattro milioni, ma ho grossi dubbi. In giro si dice abbiano contato anche i morti e i residenti all’estero. Io lo vedo, sai? Un bosniaco su due non vive qui, se ne sono andati tutti. Quando tornano mi dicono: l’avessi fatto prima…”.

 

Un paese che si sta svuotando, sconfitto da se stesso e oppresso da un caotico panorama elettorale. Infatti a questa tornata il menu offre: il Partito di azione democratica (Sda) e i quattro-partiti-quattro in cui si è atomizzato (Pda, Nb, Asda, Giustizia e popolo), l’Alleanza per un futuro migliore (Sbb), il Partito per la Bosnia Erzegovina (Stranka Zabih), l’Unione democratica croata di Bosnia Erzegovina (Hdz), il Partito croato dei diritti (Hsp), l’Unione socialdemocratica indipendente (Snsd), il Partito democratico della Serbia (Dss), il Partito del progresso democratico (Pdp), il Partito socialdemocratico (Sdp), il Fronte democratico (Df), il Nostro partito (Naša Stranka), più uno sbriciolio di altre sigle, un rompicapo perfino per me che sono italiano. “Dalla fine della guerra”, dice Sladjan, “non è mai cessato il clima di tutti contro tutti. Nemmeno l’ingegnere che ha progettato il nuovo ponte a Mostar è quello che l’ha finito”. Mentre racconta, mi accorgo di quanto sia difficile raccapezzarsi. La Bosnia, come la Gallia di Cesare, est omnis divisa in partes tres: ci sono la Repubblica Srpska (serba), la Federazione croato-musulmana e il Distretto di Brčko, entità amministrativa autonoma dal 2000. Durante la guerra, la gente rincorreva fin qui, per ricomprarli, i propri elettrodomestici rubati, e faceva ogni genere di affari, proprio come oggi. Le prostitute che aspettavano il momento propizio per venire in Europa sostavano tra le vie di questo porto fluviale aggirandosi nel suo indescrivibile centro, l’Arizona market, una desolata rotonda presidiata da due leoni di pietra tra sfatte architetture moresche, estetica Las Vegas, squallore balcanico e suq arabo.

 

Prima di andare a letto faccio una passeggiata per le vie scure di Zavidovići, un buio poroso e opalescente di neon, quasi cubano. Di mattina ripartiamo presto e guidiamo attraverso Tuzla (un vaneggiamento architettonico di casermoni, ville Toni Soprano ed ecomostri che orlano non meno mostruose cave di sabbia) passando per Zvornik e Bratunac, una strada lungo la quale, solo ventitré anni fa, si rovesciavano camionate di cadaveri nelle fosse comuni. Quando entriamo a Potocari, il Memoriale che ricorda il genocidio di 8.372 musulmani nel luglio del 1995, mi sento raggelare: un mare di steli bianche, innumerevoli, interminabili. Il lato della collina che ne è occupato, visto dalla strada, è uniformemente bianco, tanto fitti sono questi marmi che conficcano nella realtà l’altrimenti astratta matematica dell’orrore. C’è silenzio, e un irragionevole odore di lamponi nell’aria. Di là della strada, nella sede di una vecchia fabbrica utilizzata dalle truppe Onu, un museo fotografico e una grande scritta, fatta dagli stessi soldati, che recita “Un: United nothing”. A disposizione c’è anche un’atroce documentazione video, che guarderò e mi perseguiterà notte e giorno, del resto è notizia di agosto che il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik abbia chiesto di cancellare il Rapporto su Srebrenica perché “basato su dati falsi”.

 

La sensazione generale è che qui, da quando i mastini della guerra sono stati proclamati padri della pace, ben poco sia stato davvero risolto. Dallo scorso luglio l’Ue finanzia un ponte per “collegare” Dubrovnik alla Croazia e scavalcare le dogane bosniache lungo l’istmo di Neum (lavori affidati a una corporation cinese), le monarchie del Golfo Persico stanno investendo massicciamente a Sarajevo, ma la Bosnia è da capo, sola e immersa in un effetto-neve da canale tv spento, terra fatale di un’area che è un lugubre manuale della follia cui possono portare le adrenaline nazionaliste, immenso residuato di imperi sovranazionali, guerre mondiali, guerre fredde e roventi, litigiosa ed etno-ossessionata. Non è inquietante dover chiedersi perché, dopo Auschwitz, sia stato ancora possibile vedere mazzi di esseri umani, striminziti di paura, malattie e stenti, dietro un filo spinato?

Da questo tormento geopolitico a forma di paese, qualcuno, oggi, ha ricominciato a chiamare.

Di più su questi argomenti: