La città di Srebrenica 20 anni dopo la fine della guerra nella Ex-Yugoslavia

L'elezione nella Bosnia Erzegovina divisa in tre che guarda un po'a oriente un po' a occidente

Micol Flammini

Oggi non si elegge un solo presidente ma tre, uno per ogni etnia. E fra i palazzi ancora crivellati di colpi di mortaio non si può non parlare di storia

Roma. Nella campagna elettorale in Bosnia Erzegovina, dove domenica ci saranno le elezioni presidenziali, nessuno parla di nazione. A sentire i discorsi, a leggere gli slogan, la Bosnia non c’è. Ci sono i bosniaci, i serbi e i croati, frammentati e dispersi ognuno dietro alle istanze della propria comunità, della propria etnia. La parola fa male ovunque ma in modo particolare in Bosnia Erzegovina dove al termine di ogni legislatura non si elegge un solo presidente – uno per tutto il paese –, ma tre, uno per ogni etnia. Ognuno elegge il proprio, quello che promette di fare di più per la propria gente. I presidenti uscenti sono Dragan Covic, Mladen Ivanic e Bakir Izetbekovic, rispettivamente croato, serbo e bosniaco, rispettivamente cattolico, ortodosso e musulmano.

     

A Sarajevo, a Mostar, in ogni via del paese balcanico non si può non parlare di storia. Ci sono i palazzi crivellati di colpi di mortaio che ricordano che se la guerra è davvero finita, è finita soltanto ieri. Qualcuno non ricostruisce perché aspetta che sia l’altra comunità a pagare i danni fatti negli anni Novanta, qualcuno perché ormai ci ha fatto l’abitudine, qualcuno perché crede che sarà l’Europa a pensarci, prima o poi. Insomma, la storia è ancora talmente viva che sarà al centro delle elezioni di oggi, domenica 7 ottobre. Tra i bosniaci sono due i partiti che si sfidano, il Partito d’azione democratica (Sda) di Sefik Dzaferovic e il Partito per un futuro migliore (Sbb) di Fahridin Radonic, proprietario di un giornale e di una televisione. L’Sda, di cui fa parte anche il presidente uscente, Bakir Izetbekovic, figlio dell’ex presidente Alija, ha uno slogan che, a degli osservatori esterni, fa capire su cosa si baserà il voto dei bosniaci: “Rozvoj i o(p)stanak”, “Sviluppo e sopravvivenza”, o “Sviluppo e permanenza” a seconda della presenza o meno della p. Il partito rivale, l’Sbb, invece, ha deciso di iniziare la sua campagna elettorale a Srebrenica, perché sarà la storia a determinare queste elezioni e uno dei temi principali è il Rapporto di Srebrenica, firmato nel 2004 dalla Republika srpska come ammissione dei crimini commessi dall’esercito serbo contro i musulmani nel 1995, che ora i serbi vogliono annullare. Tra i serbi i favoriti sono il presidente uscente Ivanic e Milorad Dodik, per vent’anni leader della Republika srpska, l’altra entità che compone la Bosnia, e fondatore del partito Snsd, Alleanza dei socialdemocratici indipendenti. Dodik è un personaggio molto conosciuto. E’ stato lui a proporre e far approvare nel suo Parlamento l’annullamento del Rapporto su Srebrenica, sostenendo che i dati contenuti erano stati falsificati sotto le pressioni della Comunità internazionale. Il rapporto resta valido per il resto della nazione ma Dodik ha promesso che vincerà questa battaglia anche nel Parlamento nazionale e che ne verrà redatto uno nuovo senza il controllo di altre nazioni. Le promesse di Dodik, nazionalista, filorusso ed euroscettico, sono una grande minaccia per la stabilità dei Balcani. Ha giurato che renderà la sua Republika srpska indipendente e ha detto che si sentirà ancora più legittimato a farlo se le istituzioni internazionali accetteranno il Kosovo – autoproclamatosi indipendente dalla Serbia nel 2008 – come loro membro. E’ questione di instabilità, anzi di una stabilità a lungo cercata e che nessuno, nemmeno gli accordi di Dayton, sono riusciti a trovare. Anche tra i croati, l’elezione del membro della presidenza è controversa. La sfida è tra il presidente uscente Dragan Covic, leader dell’Unione democratica croata (Hdz), e Zeljko Komsic del Fronte democratico (Df). Il primo è vicino a Dodik, vuole che la nazione venga suddivisa su base etnica e promette di allearsi con i serbi in caso di vittoria. Il secondo ha sempre sostenuto la comunità bosniaca.

   

La Federazione di Bosnia ed Erzegovina è a maggioranza croata e bosniaca, la Republika srpska, invece a maggioranza serba. Ogni comunità ha le proprie alleanze e le proprie aspirazioni. La Bosnia è una nazione piccola che vorrebbe entrare a far parte dell’Unione europea e, se risolve i suoi problemi di corruzione, potrebbe anche ambire a diventare paese membro entro il 2025. Ma non tutti gli europei sono d’accordo con l’allargamento dei confini a est, verso quei Balcani ancora instabili e turbolenti. La Republika srpska guarda a oriente, come Belgrado. Guarda alla Russia, al Cremlino che questo mese ha mandato il ministro degli Esteri Sergei Lavrov a incontrare Dodik. Quei confini fragili abitati da etnie diverse, storie diverse e ferite aperte rischiano di tornare a essere un problema dopo le elezioni in un paese dove le chiese cattoliche, le cupole ortodosse e le moschee si guardano da una parte all’altra della strada, ricordando che Dayton ha messo fine a una guerra civile ma ha istituzionalizzato la divisione etnica.