Theresa May (foto LaPresse)

Nel buco della Brexit

Paola Peduzzi

Theresa May vuole combattere finché può contro il golpe dei ministri dimissionari (per ora due)

Roma. Theresa May vuole combattere, finché riesce e finché può, e oggi (lunedì ndr) si è presentata ai Comuni dicendo: non ho tradito nessuno, se mai i traditori sono quelli che lasciano il mio governo. La premier inglese vuole resistere, e con quella sua aria non-è-cambiato-niente che manda in bestia tutto il Regno Unito ha cercato di contrastare il tam tam golpista che risuonava alto nei palazzi di Londra. Finché riesce e finché può, perché far finta di niente non è utile, oggi è cambiato tutto, forse in modo irrimediabile: si sono dimessi due ministri ingombranti e importanti, il capo del dicastero della Brexit, David Davis, e nel pomeriggio quello degli Esteri, Boris Johnson. Stili e parole diversi, ma un’unica ragione: la proposta della May sulla Brexit, su cui il governo si era accordato venerdì nella residenza estiva ai Chequers (Johnson, dicono alcuni, aveva addirittura chiamato un brindisi per la May) è troppo moderata, troppo europeista, troppo “soft”, noi falchi del divorzio duro dall’Europa non possiamo negoziare con Bruxelles sulla base di premesse che non condividiamo. Il documento definitivo sarà presentato tra due giorni, ma la domanda è: May sacrificherà qualcosa per salvarsi? E soprattutto: i suoi glielo permetteranno? 

 

Dalle prime indiscrezioni, la May è disposta ad affrontare un voto di sfiducia, e il suo chief of staff appena dopo le dimissioni di Davis, stamattina, aveva mandato un messaggio ai parlamentari laburisti: dobbiamo parlare. Salvarsi a ogni costo significa andare a prendere i voti dell’opposizione, e pazienza se molti conservatori dicono che è un po’ bizzarro “far sopravvivere l’accordo dei Chequers con i voti dei socialisti” (l’ha detto Jacob Rees-Mogg, regista dell’ala falca dei parlamentari conservatori pro Brexit); e pazienza se Jeremy Corbyn, leader del Labour, ride in faccia alla May ai Comuni, “due anni per negoziare un accordo che muore in due giorni”: il senso del ridicolo è sospeso da tempo, dalle parti dell’euroscettico Corbyn che vive dei guai della premier, mai di una proposta in proprio.

 

La May vuole resistere: ha sostituito David Davis con Dominic Raab, quarantaquattro anni, ambizioso, un po’ pasticcione nei suoi incarichi precedenti, brexiteer, pronto a mostrare lealtà alla May visto che è stato scelto in un momento tanto importante e tanto delicato. Ora bisogna sostituire anche Boris Johnson, è urgente: mercoledì inizia il vertice della Nato, venerdì arriva Donald Trump nella sua prima visita ufficiale nel Regno, e intanto la minaccia russa è tornata in tutte le news quando domenica notte c’è stata la prima morte in territorio britannico causata dal gas militare novichok.

 

Johnson si è dimesso mentre era atteso al vertice sui Balcani che aveva preteso a Londra: voleva dare un segnale di come il Regno potrà prendersi cura dei partner europei pur uscendo dall’Ue. Come spesso è accaduto negli ultimi due anni, il governo inglese è riuscito a inviare il messaggio opposto: degli altri non ci importa granché, sono gli equilibri di potere di Londra l’unica nostra preoccupazione. Vale anche per l’accordo dei Chequers: per ora sono disponibili soltanto le tre pagine pubblicate venerdì sera e difese dalla May e da altri suoi ministri nelle trasmissioni tv del fine settimana. Di fatto prevede che siano quasi-duplicati gli accordi commerciali esistenti con l’Europa per quel che riguarda le merci (non le persone e non i servizi), in modo da evitare la creazione di un confine “hard” tra l’Irlanda del nord e la Repubblica d’Irlanda o tra l’Irlanda del nord e il Regno Unito. Come possa funzionare questa “terza via” della Brexit non si sa, si aspetta il documento di giovedì, ma tanto è bastato perché tutti, falchi e colombe, gridassero “tradimento!”. Per i brexiteers è come rimanere in Europa, per gli anti Brexit è un compromesso fuori dal mercato unico quindi costosissimo e impraticabile senza un secondo referendum per rimangiarsi la parola data sul divorzio. Per chi non è un “Brexit-estremista”, di qui e di là, non è annullato il pericolo che all’Europa l’accordo non piaccia: il tempo stringe, e l’ipotesi sciagurata del “no deal” è ancora viva.

 

Dopo due anni di proposte e controproposte e liti e dimissioni (la May è al sesto rimpasto, e ha anche perso la maggioranza in Parlamento), ci sono solo nervi che saltano, e poca voglia di entrare nei dettagli. May vuole provare a cambiare un istinto alla guerra che ha contribuito a creare, brandisce il suo accordo dei Chequers e accetta la sfida: contiamoci. Ma se non è ancora arrivata la firma dei 48 parlamentari che serve per chiedere la sfiducia, c’è chi pensa che non avrà nemmeno la chance di combattere. “Una fonte beninformata mi ha detto che la situazione è più seria di così – sostiene Laura Kuenssberg della Bbc – C’è un golpe concertato per forzare la May a lasciar cadere il compromesso dei Chequers. Se non lo fa, ci sarà un’altra dimissione, poi un’altra, poi un’altra”, poi l’aria finisce.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi