Theresa May sale sul palco della conferenza Tory sulle note degli Abba (foto LaPresse)

Io ballo da sola

Paola Peduzzi

La May affossa gli avvoltoi del suo partito a passo di danza. Ora si torna a parlare seriamente di Brexit

Milano. E anche quest’anno è andata, Theresa May è arrivata alla conferenza del suo partito, i Tory britannici, soffocata dalla consueta aria di golpe che ormai respira ogni giorno, ed è uscita ancora in piedi, ancora leader, ancora premier. Si è concessa un ballo dei suoi, goffi e sgraziati, sulle note di “Dancing Queen” degli Abba, lei che non è regina e che non sa danzare, come ultimo, umanissimo sberleffo a chi lavora indefesso da anni per affossarla e non ci riesce mai. La vita politica della May non è lunga, lo sa lei prima di tutti gli altri, è un premier nato con un conto alla rovescia appiccicato addosso, nella stagione più disastrosa del Regno Unito: non può uscirne bene. Ma forse ne uscirà meglio del branco di golpisti che le sta alle calcagna, tanto rabbioso quanto inefficace, e certo ne uscirà meglio di tutti quelli che a quel branco danno spazio, visibilità, voce, come se davvero la caduta della May fosse la soluzione ai guai che il Regno Unito e l’Europa intera devono affrontare.

 

Il golpe è stato per ora sventato, ancora una volta, forse perché la May è più forte di quanto si pensi, o più probabilmente perché le alternative che ci sono paiono talmente poco credibili – uomini in mutande nei campi, letteralmente – che si resta con chi c’è già. E’ un’altra versione dell’immobilismo che ha colto la Gran Bretagna, che continua a girare a vuoto sulle sue fratture senza riuscire a fornire, nemmeno a intravedere, una via d’uscita. Sarà il tempo, che è poco e che non concede più troppe deviazioni, a dare lo spintone finale, e a oggi questo spintone pare parecchio doloroso. La May nel suo discorso di ieri a Birmingham ha cercato di dare una prospettiva al proprio mandato, annunciando la fine dell’austerità dopo dieci anni di politiche del rigore e attaccando il partito rivale, il Labour di Jeremy Corbyn, pronto a sfasciare quel che è stato costruito in questi anni. Poi ovviamente c’è la Brexit.

  

Al momento il governo di Londra è fermo – in realtà ha camminato per mesi per arrivare fin qui – al piano dei Chequers, approvato dai ministri nel mezzo dell’estate, presentato all’Unione europea che lo ha recentemente affossato. La May è disposta a negoziare i Chequers ma rifiuta – lo ha fatto anche ieri – il modello norvegese o canadese che propongono, per semplificare, gli europei. Se non si supera questo stallo, il rischio di un non accordo diventa concreto: tutti i piani alternativi proposti in questi giorni dai golpisti contengono parecchi elementi di infattibilità e in ogni caso hanno il problema che difficilmente riusciranno a diventare materia di negoziato con Bruxelles. Cioè sono delle proposte, di fatto, per un no deal. L’altro paradosso è che anche il no deal implica una serie di nuovi accordi: non ci sarà un deal onnicomprensivo, ma tanti piccoli deal su ogni materia. Centinaia di negoziati per evitarne uno, che affare.

   

Ora quindi al Regno restano due alternative: negoziare i Chequers con gli europei, che nel frattempo si sono stufati e che quindi vanno ricondotti, con le buone, al tavolo da cui si sono alzati in malo modo all’ultimo vertice di Salisburgo. O indire un nuovo referendum, come vuole il mondo del People’s vote, che non sia soltanto una decisione sull’accordo negoziato o non negoziato, ma che comprenda anche la domanda fatale: la volete ancora, la Brexit? Chi chiede il referendum sta raccogliendo consensi e ha trovato uno slogan sensato: la Brexit migliore è la non Brexit, perché ormai è chiaro che il problema della Brexit non è se è morbida, dura, liberale, equa, bianca o chissà cos’altro. Il problema della Brexit è la Brexit stessa. Il piano della May asseconda il volere popolare del 2016, ma resta l’opzione del ribaltone finale, con un referendum che annulli l’accordo e riprenda il polso degli inglesi sulla questione europea. In entrambi i casi, non ci sono piani B allo studio, e una volta che dovesse collassare il lavoro diplomatico fatto fino a ora si può solo sperare in un allungamento dei tempi dell’articolo 50, che legalmente è possibile e che all’Ue potrebbe anche non dispiacere, visto che a maggio ci sono le elezioni europee che già tengono col fiato sospeso tutto il continente. Nell’attesa, i golpisti dovrebbero mettersi il cuore in pace, ma non lo faranno. C’è già una mozione di sfiducia che sta circolando tra i parlamentari conservatori: è stata formulata mentre la May ballava gli Abba, con quel tempismo che soltanto gli autoboicottaggi più sciagurati riescono ad avere.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi