L'arrivo dei medicinali inviati dall'Unnra in pretura a Milano (foto LaPresse)

A proposito del nuovo piano Marshall

Maria C. Cipolla

Pure gli aiuti americani avevano molte “condizionalità” (che ci hanno salvato)

Per superare questa crisi avremmo bisogno di un piano Marshall europeo, dicono in molti. E lo dicono come invocando la provvidenza: un programma di rilancio dell'economia a costo zero e zero condizioni. Eppure, a ripassare la storia di quel piano annunciato nel 1947 in un discorso di undici minuti dall'ex generale e segretario di Stato americano George Marshall, quell'invocazione è una formula svuotata, la proiezione nel passato di un desiderio e la rimozione di quello che il piano Marshall è stato davvero. In realtà non solo quel piano prevedeva molte condizonalità, formali e informali, e forniva meno liquidità di quella in discussione a Bruxelles, ma oggi un piano del genere non ci serve nemmeno, come ricorda il giovane economista Pietro Mistura in una nota dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica di Milano. Partiamo dalle condizionalità. Innanzitutto, ricorda Mistura, lo Stato che beneficiava del piano di aiuti di Washington era tenuto a inviare un programma di spesa che doveva essere approvato da un'organizzazione che all'epoca si chiamava Oece – che diventerà poi l'attuale Ocse – e poi inviato alla European cooperation admnistration (Eca), l'agenzia statunitense che gestiva gli aiuti al Vecchio continente – altro che Mes – che poteva emendarlo, tanto per dire della cessione di sovranità.

 

 

Ma l'idealizzazione di quel piano va anche oltre e riguarda le somme in gioco e le modalità con cui gli Stati Uniti hanno sostenuto gli Stati europei. Il governo americano stanziò per il piano 14 miliardi in totale, pari al 5,4% del loro pil e all'Italia arrivarono aiuti – soprattutto donazioni e in misura minore prestiti a lunga scadenza – per 1,5 miliardi pari, calcola la nota dell'Osservatorio sui conti pubblici, “al 9,2% del pil medio annuale italiano nel periodo 1948-1952”. Per dare un'idea dell’ordine di grandezza basta fare un confronto con la quota di debito pubblico italiano che la Bce è destinata ad acquisire quest'anno: almeno 240 miliardi di euro, cioè il 14 per cento del pil italiano. A chi fa notare che si tratta di prestiti, Mistura ricorda che gli acquisti Bce ci permettono di finanziarci a un interesse più basso, mentre “il costo degli interessi è in parte restituito all’Italia tramite i profitti della Bce (trasferiti alla Banca d’Italia e da questa allo Stato), senza contare che finora i titoli che giungevano in scadenza coi programmi di quantitative easing sono sempre stati rinnovati e che stiamo parlando solo degli acquisti del 2020. Questo senza contare poi le altre misure, dai 10 miliardi l'anno che potrebbero arrivare attraverso il meccanismo di assicurazione anti disoccupazione Sure, agli oltre 30 miliardi che potrebbero essere forniti attraverso il Mes, fino ai progetti della Bei e al fondo per il rilancio economico che sarà al centro del prossimo Eurogruppo. 

 

Oggi quelle misure sono importanti per mantenere alta la domanda aggregata. Come ha calcolato recentemente un gruppo di ricercatori dell'Ocse, infatti, questa crisi sarà per il 70% una crisi di domanda, e solo per il 30% da una crisi dell'offerta e della catena di produzione. Questo significa che gli aiuti del piano Marshall sarebbero oggi una risposta non adeguata perché “all’Europa serve una domanda di prodotti europei, non l’offerta di prodotti importati”. 

 

Gli Stati Uniti, ricorda ancora la nota di Mistura, inviarono in Europa materie prime, semilavorati e tecnologia che gli stati beneficiari vendevano in moneta nazionale agli imprenditori. Quindi le imprese italiane pagavano lo stato, che a sua volta investiva le entrate nel programma di investimenti concordato con l'amministrazione americana. E che doveva rispettare una serie di condizionalità precise: “Promuovere la produzione industriale e agricola; implementare misure finanziarie e monetarie che stabilizzassero le valute; cooperare con gli altri paesi aderenti al piano di modo da incrementare la rete di commercio; fare un uso efficiente e pratico delle risorse del paese, incluse le attività detenute negli Stati Uniti; facilitare il trasferimento di materiali scarsi negli Stati Uniti; accettare di negoziare un programma futuro di fornitura minima agli Stati Uniti di determinati prodotti dietro il compenso del prezzo di mercato mondiale”. In sostanza importazioni ed esportazioni erano politicamente orientate, da una parte infatti si richiedeva di rifornire il mercato statunitense di ciò di cui aveva bisogno, dall'altro si accettavano le esportazioni americane come carburante per la nostra economia, consolidando la leadership economica globale di Washington. 

 

Mentre le raccomandazioni rivolte dalla Commissione al nostro paese negli ultimi 10 anni, dal ridurre la spesa pensionistica allo spostare il carico fiscale sul capitale, sono condizionalità che noi stessi dovremmo proporre per renderci più credibili. Inoltre, se è vero e riconosciuto trasversalmente che “la generosità del Piano Marshall è indubbia, soprattutto se messa a confronto con le pesanti riparazioni di guerra fissate col Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale”, a settant’anni di distanza sarebbe irragionevole raccontarlo con ingenuità, senza considerare per esempio anche le condizionalità informali come il posizionamento politico dell'Italia al di qua della cortina di ferro. Un vincolo certamente migliore dell'alternativa. Cosa che dovrebbero ricordare tutti quelli che cercano e invocano aiuti gratuiti e senza condizionalità fuori dall’Unione europea, magari guardando alla Cina o alla Russia. In ogni caso la “cessione di sovranità” non è paragonabile alla compartecipazione dell'Italia all'Unione europea, dove da stato sovrano tra stati sovrani si concordano spesso non facili compromessi. 

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