Il piano Colao rischia di essere un'occasione mancata

Stefano Micossi*

Il rapporto è "un catalogo di tutto quel che annunciamo di voler fare e non siamo affatto disposti a fare, da molti anni. Non affronta le ragioni dei ritardi e dei blocchi". Il commento del dg delle società per azioni italiane

La lettura del Rapporto Colao, con le sue 102 schede, colpisce per la ricchezza degli specifici contributi – peraltro di qualità e grado di approfondimento variabile – ma lascia l’amaro in bocca per quella che deve essere per forza una scelta di impostazione: quella di non affrontare in nessun campo né il problema delle risorse, né soprattutto il problema dei vincoli politici e sociali, prima che istituzionali, che hanno finora impedito di fare quel che viene proposto.

  

In sostanza abbiamo davanti un catalogo aggiornato di tutte le buone proposte che nelle diverse materie si sono accumulate in vent’anni di immobilismo e che spiegano la mancata modernizzazione dell’economia italiana; ma nulla si dice dei blocchi che le hanno impedite e di come si potrebbero superare. Quasi dappertutto la soluzione proposta è quella di dare incentivi e sussidi per realizzare l’obiettivo meritevole, in un paese nel quale le cd. tax expenditures si avvicinano al migliaio, rendendo il nostro sistema fiscale una giungla inestricabile e distorsiva, ma in cui tali incoraggiamenti sono sistematicamente falliti.

  

Soprattutto, manca l’analisi dei fallimenti dell’economia italiana, dal mercato del lavoro disfunzionale, alla pubblica amministrazione devastata dalle intrusione della politica, alla moltiplicazione degli interventi difensivi che impediscono il funzionamento del mercato e ogni cambiamento da parte di regioni ed enti locali e, in fondo in fondo, alla diffusa cultura, più che anti-industriale anti-moderna, che vede nella conservazione dell’esistente a spese dello stato lo scudo contro il nuovo che avanza. Nasce qui il nostro gigantesco debito pubblico, come nascono qui il blocco della produttività e della concorrenza, senza le quali crescere proprio non si può.

 

Qualche esempio aiuterà a capire. Incominciamo dal mercato del lavoro e dall’impresa. Il nostro mercato del lavoro è caratterizzato dal più ampio scarto tra produttività e salari a livello locale del mondo avanzato; il costo maggiore lo porta il Mezzogiorno, dove i salari sono troppo elevati rispetto alla produttività e pertanto l’occupazione privata continua a cadere. Sappiamo che il problema può essere superato solo decentrando il negoziato salariale a livello dell’impresa o, se non proprio non si può, a livello di comparti sul territorio. La Confindustria e il sindacato hanno firmato alla fine del decennio scorso un accordo per superare il contratto nazionale per tutte le componenti che riguardano l’organizzazione e la produttività, ma il sistema non è mai decollato, anche perché non lo vogliono neanche le imprese, troppo piccole per affrontare il negoziato salariale al livello aziendale. Di questo il Rapporto Colao non dice una parola: evidentemente un tema politicamente troppo caldo.

  

Veniamo alle imprese. Le competenze sono scarse, le tecnologie digitali sono quasi assenti, i laureati in azienda proprio non li vogliono e, soprattutto, le imprese vogliono restare piccole. Ottime analisi negli anni passati hanno mostrato che la prima malattia sta nel manico, nella cultura familistica che presiede alla scelta del management e lo infesta di famigliari. Impedisce di crescere anche alle aziende di successo del made in Italy, che nella stragrande maggioranza non sono disposte ad abbandonare la struttura famigliare per raccogliere capitali e trovare partner sul mercato internazionale. Così alla fine vendono ai grandi distributori del lusso francesi, che i brand sanno come sfruttarli.

  

Ma non si può neanche dimenticare che queste imprese operano in un ambiente nel quale le scelte aziendali sono rese molto complicate da una regolamentazione intrusiva e costosa e da carichi fiscali oppressivi, entrambe le cose crescenti con la dimensione. Su questo non una parola. Propongono di incentivare le reti d’imprese, che sono la risposta italiana per aggirare un ambiente economico avverso all’impresa; come a dire che, poiché non possiamo battere il nemico, facciamo un accordo per cambiare le divise dei soldati.

   

Si ritorna all’idea spompata secondo cui la crescita aziendale può essere spinta con la finanza, mentre servirebbe un mercato aperto e concorrenziale. Il quasi completo fallimento dei PIR non ha insegnato molto, ci hanno guadagnato soprattutto i gestori dei fondi, alle imprese e ai risparmiatori non è arrivato granché. A un certo punto il meccanismo si è bloccato, perché vari soggetti che non c’entravano per natura e finalità hanno chiesto e ottenuto di essere aggiunti alla schiera dei beneficiari di quel meccanismo drogato dai benefici fiscali.

  

Due parole sul turismo. Ci sono 36.000 strutture alberghiere, nota il Rapporto, con 34.000 proprietari. Non abbiamo sviluppato iniziative specializzate, come ha fatto la Spagna con i campi da golf. Gli esperti del Gruppo evidentemente non sanno che nel 1991 il Centro Studi della Confindustria (allora sotto la mia direzione) pubblicò un bellissimo rapporto sul turismo, nel quale invocava la crescita dimensionale delle strutture ricettive e proponeva la creazione nel Mezzogiorno di otto grandi centri di accoglienza, con golf e altre amenità, affidati a grandi strutture internazionali. Rapporti quasi uguali furono pubblicati dieci anni dopo e venti anni dopo, ma non è successo nulla. Il motivo è semplice: quei 34.000 piccoli albergatori sanno ben difendersi dalla concorrenza, appoggiandosi alle strutture regionali e locali, che si assicurano che non entri nessuno di grande o con nuove iniziative non controllate localmente. È una struttura povera, al meglio a tre stelle, come nota il Rapporto; e spesso le tre stelle se le fanno regalare da organi pubblici e semi pubblici locali compiacenti che non controllano la qualità, ma favoriscono i propri associati. Chi lo farebbe quell’indurimento dei criteri di qualità invocato dal Rapporto Colao? Intanto, regioni ed enti locali erogano sussidi pubblici per tenere in piedi chi altrimenti non ce la farebbe, spesso utilizzando al fine i fondi europei che dovrebbero aiutare a fare sorgere nuove strutture, e invece fanno danni perché sono catturati dagli interessi locali.

 

Veniamo alla Pubblica Amministrazione. Il Rapporto contiene ottime proposte, che sono quelle già avanzate dall’Agenzia per la digitalizzazione della PA, ora soppressa, e dal gruppo di lavoro coordinato a Palazzo Chigi dal dottor Piacentini. Un rapporto eccellente quello di Piacentini, gettato nel cassetto subito dopo la presentazione, come era stato gettato nel cassetto il rapporto preparato per il contenimento della spesa pubblica inefficiente dal Prof. Cottarelli.

 

La semplificazione è oramai un mantra, ma la vuole veramente qualcuno? Come si fa a parlare di semplificazione se non si smantella quel mostruoso apparato di controlli ex-ante centrato su Corte di Conti e Anac, che impedisce le decisioni, ma non la corruzione? Perché gli unici capaci di superare quei filtri sono i malandrini, naturalmente. Come si fa a ridare all’amministrazione capacità di decidere se non si ripristina il ruolo discrezionale della dirigenza, ora mortificato nei formalismi, nelle assunzioni clientelari, nel sistematico smantellamento delle competenze da parte della politica, che le vede come il fumo negli occhi?

 

Né trovo nella discussione dello stato dell’università e della ricerca l’analisi severa che servirebbe per descrivere la trasformazione dei meccanismi di peer review in meccanismi di spartizione consensuale dei fondi. Né si ricorda che abbiamo massacrato l’università e la ricerca continuando a tagliare i fondi pubblici anno dopo anno. 

 

Insomma, trovo il Rapporto Colao un utile catalogo … di tutto quel che annunciamo di voler fare e non siamo affatto disposti a fare, da molti anni. Ricade a piedi pari nell’antico vizio di proporre un sussidio per ogni proposta, non sembra domandarsi perché quelle cose giuste e buone che propone cerchiamo da farle da anni, ma non ci riusciamo. Il fatto che le ragioni dei ritardi e dei blocchi non siano neanche menzionati non lo rende uno strumento efficace.


 

* Stefano Micossi è direttore generale Assonime, professore onorario Collegio d’Europa in Bruges e presidente Comitato scientifico School of European Political Economy LUISS

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