Amazon che assume 175 mila dipendenti è l’immagine simbolica dei vincitori. In un mese il suo titolo in Borsa è salito del 35 per cento (LaPresse)

I cavalieri del corona

Stefano Cingolani

Telecomunicazioni, farmaceutica, distribuzione. Hanno sfidato la pandemia, e ora ripartono da vincitori

Si riparte. Lentamente, a scaglioni, con grandi difficoltà anche organizzative, ma si riparte. L’Italia è più lenta, tuttavia è anche la più colpita e ha praticato una chiusura integrale a differenza da altri paesi. La via cinese seguita dal governo era inevitabile (forse), certo non ha dato i risultati sperati e annunciati; adesso dimostra che riaprire le porte è ben più difficile che sbarrarle. Chi è pronto e chi no? Quali sono i punti di forza sui quali far leva? Il Fondo monetario internazionale ha fotografato un crollo senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale: il prodotto lordo scenderà quest’anno del tre per cento su scala globale e l’Italia sarà il paese più colpito con una caduta di ben nove punti percentuali. La Banca d’Italia stima un tonfo della produzione industriale pari al 15 per cento. Tuttavia, le medie statistiche coprono una situazione molto variegata; la crisi si presenta a macchie di leopardo sia geograficamente sia economicamente e simile sarà la morfologia della ripresa.

 

Sappiamo chi sono i vinti: linee aeree, turismo, abbigliamento, piccole imprese, commercio al dettaglio, manifattura

Bisogna ricordare innanzitutto chi non ha mai chiuso e compie, sotto uno stress indicibile, questo lungo viaggio attraverso la notte. I medici, gli ospedali, l’intera filiera della sanità naturalmente, ma non solo. In queste settimane di cattività che cosa abbiamo fatto? Ci siamo collegati in teleconferenza per lavorare, studiare e contattare parenti e amici lontani. Abbiamo usato il telefono, la rete internet e la tv come mai prima per quantità e qualità, per quote del nostro tempo, ma anche con modalità nuove e che prima erano marginali. Abbiamo assaltato i supermercati finché non è stata imposta la lunga coda distanziata, abbiamo mangiato pizza e cibo consegnato a domicilio, abbiamo utilizzato i corrieri per scambiarci posta, pacchi e pacchettini, abbiamo tenuto accesi i riscaldamenti per molte più ore del giorno e della notte, siamo andati in farmacia più spesso per comprare prodotti una volta considerati non indispensabili (si pensi ai gel disinfettanti, non solo alle mascherine o ai guanti), né di prima necessità; è scomparsa la vitamina C somministrata in pillole, in confetti, in bustine, c’è stata la corsa alla carta igienica, ai fazzoletti di carta, alle salviettine igienizzanti. Insomma, se analizziamo momento per momento la nostra quotidianità stravolta, troviamo che la pandemia non ha fatto il vuoto, ma ha premiato alcuni e punito altri.

 

Sopravvivenza, adattamento, selezione, sembra la rivincita di Charles Darwin e la ripresa prenderà le mosse proprio da qui. Sappiamo chi sono i vinti: viaggi, linee aeree (il salvataggio pubblico americano è emblematico), turismo, abbigliamento, piccole imprese, commercio al dettaglio, manifattura tradizionale, è un lungo elenco di produttori e consumatori; soffriranno a lungo e molti non si riprenderanno. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, un miliardo e 250 mila persone rischia di perdere il posto nel mondo intero, circa il 38 per cento degli occupati. Cifre da brivido che campeggiano sui giornali. Ma poco si parla dei cavalieri rimasti in campo sfidando la forza oscura.

 

La caduta dei redditi pubblicitari accomuna l’intero mondo dell’informazione, il quale, però, è sollecitato dalla pandemia

Amazon che assume 175 mila dipendenti è l’immagine simbolica dei vincitori. In un mese il suo titolo in Borsa è salito del 35 per cento ed è stato il mese peggiore degli ultimi dieci anni sui mercati azionari. Jeff Bezos ha guadagnato 24 miliardi dall’inizio dell’anno. Zoom è cresciuta del 30 per cento e il fondatore Eric Yan ha raddoppiato il suo patrimonio che ammonta a 7,4 miliardi di dollari; Equinix, Citrix, le imprese specializzate in connessioni internet hanno partecipato al ricco banchetto che ha rimpinzato sia pure in modo diverso tutte le compagnie di software non solo americane (il valore della tedesca Sap è cresciuto in un mese del 19,42 per cento), per non parlare dei giganti come Apple, Facebook, Alphabet. La clausura all’insegna del digitale ha dato una spinta ulteriore a processi già in corso ed è proprio la caratteristica, secondo l’Economist, della presente congiuntura a differenza da altre recessioni. Il capitalismo aveva messo in moto processi economici e sociali che il coronavirus non ha represso, anzi sta accelerando, al contrario da quel che ripetono i profeti del declinismo. Nessuno può sapere come finirà, ogni determinismo storico è bugiardo, tuttavia è quel che vediamo con i nostri occhi se solo li liberiamo dalle accecanti cisposità ideologiche.

 

Anche le imprese di telecomunicazioni vivono un boom della domanda al quale cercano di dare risposta accelerando la convergenza tra contenuti e contenitori. La crisi, tuttavia, ha aperto un buco nei loro bilanci perché si sono ridimensionati gli introiti che derivano dal roaming mentre l’atteggiamento prudente degli utenti ha ridotto i nuovi contratti. E’ probabile che rallenti il passaggio al 5G, un salto tecnologico che, complottisti a parte, appare a questo punto essenziale. La caduta dei redditi pubblicitari accomuna l’intero mondo dell’informazione, il quale, però, è stato sollecitato come non mai dalla pandemia. I giornali tirano, in particolare i loro siti online, la tv, anche quella tradizionale, accompagna e scandisce le giornate; il canale televisivo o radiofonico è il nostro canale con la vita. Secondo la Nielsen nelle prime tre settimane di marzo gli americani hanno trascorso 400 miliardi di minuti collegati per vedere programmi via internet, con un balzo dell’85 per cento. Netflix, con 68 milioni di sottoscrittori, ne ha assorbiti un terzo, seguita da YouTube.

 

La rete elettrica si è rivelata più che mai il sistema nervoso della società e dell’economia; ha retto bene, in Italia come ovunque, alla maggiore pressione anche perché si è bloccata la domanda industriale, ma l’accelerazione digitale ha reso ancor più strategica l’infrastruttura elettrica. Lo stesso si può dire della rete internet che ha tenuto sia pure a velocità bassa in gran parte dell’Italia, rispetto alle esigenze, mostrando tutte le sue smagliature. E’ una delle priorità da affrontare, superando i conflitti che ancora impediscono di mettere in piedi una copertura adeguata, veloce e affidabile, in tutto il paese. Il divario tecnologico, non solo geografico o generazionale, è apparso più chiaramente come una delle zavorre più pesanti che bloccano l’Italia.

 

Debito, deficit, bonus, fondo salva stati, erogazioni assistenziali, tutto importante, anzi decisivo nel breve periodo, ma diventa ormai prioritario favorire quella riconversione che l’economia italiana non è stata in grado di compiere negli ultimi dieci anni. E’ il modello in sé, basato sulla piccola impresa fornitrice dei grandi gruppi multinazionali europei e mondiali, a rivelare le sue debolezze, cominciando dal nord est. La catena produttiva spezzata dalla pandemia sarà ricostruita, ma non come prima. L’export italiano è forte nella meccanica rimessa in discussione da una industria destinata a elettrificarsi sempre più e a contare sempre meno su carbone e petrolio i cui prezzi restano bassi nonostante i tagli alla produzione. Si pensi all’automobile, uno dei comparti messi a terra. Si riprenderà e quasi certamente il mondo ancora infestato di coronavirus vedrà il trasporto privato prevalere su quello pubblico, con un balzo dell’inquinamento. Ciò sarà una spinta ulteriore verso motori a basso consumo e basse emissioni, verso l’ibrido, l’elettrico, o l’alimentazione a idrogeno. Elon Musk s’è riempito le tasche in questi mesi e non solo grazie alla sua astuzia. La filiera italiana dei fornitori, quindi, dovrà cambiare. E bisognerà incentivare il consolidamento, la fusione, la crescita di imprese oggi troppo piccole e fragili per resistere.

 

Emerge la necessità di coordinare e riorganizzare l’intero sistema sanitario. La ripresa dovrebbe potenziare la farmaceutica

La ripresa dovrebbe potenziare la farmaceutica anche in Italia (l’amuchina del gruppo Angelini è diventata un marchio mondiale). Ci sono piccole imprese di assoluta eccellenza come la Advent-Irbm che lavora a un vaccino con la Oxford University, c’è un polo a Pomezia, a sud di Roma, ci sono gruppi di taglia media. Menarini, Chiesi, Bracco, Recordati, Alfasigma nata dalla fusione tra Alfa Wasserman e Sigma Tau, sono i primi cinque, hanno ciascuno un fatturato di oltre mille miliardi di euro, ma nessuno di loro raggiunge i duemila miliardi. La britannica Glaxo supera i 30 miliardi, la tedesca Bayer arriva a quasi il doppio, grosso modo come l’americana Pfizer. Il sogno di creare un campione internazionale con la Farmitalia Carlo Erba è finito nella polvere (venduta dalla Montedison nel 1993, è passata attraverso la Pharmacia, la Upjohn, la Monsanto, la Pfizer, la Johnson & Johnson); ma l’Italia può restare ai margini di Big Pharma? L’industria della salute è ormai una filiera integrata, ricerca e produzione di farmaci sono collegate al comparto biomedico, agli ospedali, alle farmacie, alla ricerca, quindi alle università. Questa pandemia mette in evidenza la necessità di coordinare e riorganizzare l’intero sistema. La sanità come la banca avrà bisogno di un cuscinetto che la metta al riparo dall’emergenza, di scorte strategiche per un settore strategico non meno del petrolio o della Difesa.

 

La riconversione non attraversa solo la manifattura e i servizi avanzati. Si pensi all’agricoltura: oggi soffre per la mancanza di braccia; in realtà è inconcepibile senza il suo doppio legame con l’industria i trasformazione e con la distribuzione. Nulla di nuovo sotto il sole, di nuovo c’è l’espansione dell’ecommerce e qui il rapporto tra produttore e consumatore può diventare più stretto. Ciò mette in crisi sia il piccolo negozio all’angolo sia il supermercato se l’uno e l’altro non entrano in questo campo. Sta già avvenendo per stato di necessità, può diventare una forma importante, anche se complementare, che amplia il mercato e crea nuove occasioni di lavoro. Quando si legge che la ripresa avverrà con più macchine e meno lavoratori, si ripete un luogo comune almeno bicentenario, e si dimentica che all’anno di disgrazia 2020, gli Stati Uniti, la Germania, il nord Europa come il nord America erano arrivati con una sostanziale piena occupazione.

 

Vincerà la corsa chi è più allenato, chi avrà preparato i propri muscoli economici e sociali avendo capito la prova alla quale va incontro

Un discorso a sé va fatto per le aziende che intermediano il risparmio. Alle banche è affidato un compito arduo, che può rivelarsi persino superiore alle loro forze. Un po’ ovunque, dagli Stati Uniti all’Italia i banchieri fanno da ufficiali pagatori del principe, sono loro a distribuire aiuti, sostegni, prestiti garantiti. La moneta non arriva dagli elicotteri, ma dagli sportelli più o meno virtuali. Nello stesso tempo, toccherà a loro finanziare la ripresa per tutta quella parte, e sarà amplissima se non prevalente, che non può far conto solo sul sostegno statale. Questo aumenta i rischi: quanti crediti concessi non torneranno mai indietro; quanti marciranno per sempre tra i bidoni della recessione? Non tutti potranno essere coperti da debiti pubblici destinati a schizzare in alto di venti-trenta punti rispetto al prodotto lordo (gli Stati Uniti arriveranno al 135 per cento, l’Italia salirà almeno a quota 155 con un deficit superiore all’8 per cento). La Banca centrale europea che le rifornisce di denaro liquido, ha invitato le banche a non distribuire i dividendi per quest’anno in modo da rafforzare il capitale. Chissà se sarà sufficiente. Al contrario, le Assicurazioni Generali hanno deciso di remunerare gli azionisti in due tranche (0,50 centesimi per azione a maggio e 0,45 a fine anno “soggetta a verifica consiliare sulla sussistenza di requisiti patrimoniali e regolamentari”). Le assicurazioni non sfuggono alla crisi (meno incidenti, ma anche meno circolazione, meno impiego dei risparmi a lungo termine, interessi schiacciati verso il basso), e la sfida sanitaria è enorme; tuttavia il loro è un mestiere diverso da quello bancario. Il Leone di Trieste vanta la sua solidità patrimoniale e i buoni risultati ottenuti. La compagnia ha 190 mila azionisti, un quarto sono individui, il 38 per cento fondi e investitori istituzionali; distribuire i guadagni non è un regalo ai grandi soci, ma una scommessa sulla ripresa perché fornisce liquidità a una gran massa di persone. Questo è il messaggio, anch’esso “soggetto a verifica”.

 

Il ritorno al lavoro non sarà un ritorno al solito tran tran. I guru con un grande futuro dietro le spalle, come Jeremy Rifkind, sostengono che “l’èra del progresso finisce ed entriamo nell’era della resilienza”. Le campane suonano a morto per la globalizzazione da destra come da sinistra. A ogni crisi gli stessi rintocchi, questa volta con tono più grave. Per quel che si può capire (e non è molto) il capitalismo digitale ne uscirà più forte; la svolta nella gestione delle imprese e nei loro obiettivi sarà più netta; la riconversione energetica segnerà, per un lungo periodo, il primato elettrico. Vincerà la corsa chi è più allenato, chi avrà preparato i propri muscoli economici e sociali avendo capito la prova alla quale va incontro. Ciò vale per i comparti dell’economia come abbiamo visto, ma anche per paesi e blocchi economici.

 

Il coronavirus ha scosso il triangolo delle grandi potenze (Usa, Cina, Ue). L’Europa anseatica, quella che va dall’Olanda fino al Baltico attraversando la Germania, appare oggi più solida e gonfia il petto fino a rasentare l’arroganza. Tuttavia è avvinta all’altra Europa, quella latina, in un groviglio difficilmente districabile. Gli Stati Uniti mostrano una debolezza dell’apparato industriale e dell’economia interna occultata in questi anni dalla frenetica corsa di Wall Street, dall’irrefrenabile espansione delle multinazionali a stelle e strisce, da una classe media che si era ripresa dopo lo choc del 2008-2010. L’America, però, conserva tre leadership indiscusse: quella tecnologica, quella militare e quella monetaria. E quando oggi si parla di stampare moneta per sostenere l’economia mondiale si parla soprattutto di verdi dollaroni. La Cina sta facendo sforzi per farsi perdonare, ma difficilmente si potrà dimenticare la colpa originaria, quella di aver nascosto a lungo il Covid-19, mentre il peso dei debiti occultati finora da una continua e consistente crescita, fa scricchiolare grandi conglomerati. Lo stesso Xi Jinping, che vuole essere l’ultimo imperatore, è apparso debole e incerto. Pechino rischia di perdere la sua storica occasione, altro che Via della seta. Ma ci stiamo spingendo troppo in là e non è davvero tempo di profezie.

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