Un tampone per il coronavirus preso da un’unità mobile a Roma (Alessandra Tarantino / AP Photos)

L'eccellenza italiana che fa i test per il virus in un'ora

Edoardo D'Elia

Due chiacchiere con DiaSorin, che usa una ex tecnologia di guerra per analizzare i tamponi. Il biotech italiano contro il Covid-19

Quando si parla di tamponi per mappare la diffusione del coronavirus Covid-19 – quanti ne servono, quanti ce ne sono in giro disponibili all’uso, quanto tempo richiedono per essere effettuati e chi li produce – in realtà si parla di test diagnostici. Per capirci, il tampone è poco più di un bastoncino. Ciò che conta è il test, che permette di rilevare tracce del virus all’interno del campione biologico che il tampone ha prelevato dal paziente. Il test diagnostico, invece, è una procedura che serve a estrarre gli acidi nucleici (RNA e DNA), polimerizzarli (cioè amplificarli) in modo da renderli più “visibili”, e rilevare l’eventuale presenza dell’agente patogeno. Questo procedimento, come si può immaginare, richiede personale qualificato, molte ore di lavoro e un macchinario grosso e sofisticato che non si trova in tutti gli ospedali. Non importa quanti tamponi si riescano a fare sul campo, ma quanti, e in quanto tempo, arrivano nei laboratori per essere analizzati.

 

Insomma, il tampone è agile, il test no. DiaSorin, una società biotech multinazionale italiana leader nel campo della diagnostica in vitro, ha sviluppato un innovativo test molecolare per l’identificazione rapida del nuovo coronavirus Covid-19 (nome ufficiale: Simplexa Covid-19 Direct Kit). Il test è rapido perché utilizza una tecnologia proprietaria (Direct Amplification Disc) che consente di analizzare otto campioni per volta e di ottenere il risultato nel giro di sessanta minuti. Ed è agile, perché è sviluppato per essere eseguito su un analizzatore compatto e facilmente trasportabile. Data la sua maneggevolezza, può essere usato nei laboratori diagnostici di ogni ospedale, stando quindi vicinissimo a dove vengono fatti i tamponi. L’impiego principale dell’analizzatore è infatti nei pronto soccorso, nella fase di prima accettazione del paziente. Chiunque arriva può essere sottoposto immediatamente al test e ottenere in sessanta minuti il risultato, accelerando così notevolmente le decisioni sull’isolamento dei pazienti infetti. “In questo momento”, ha detto al Foglio Innovazione Riccardo Fava, vicepresidente con delega alle comunicazioni di DiaSorin. “è in dotazione alla maggior parte degli ospedali del nord Italia, nelle zone più colpite dalla pandemia, ma siamo in contatto con tutte le altre regioni per cercare interesse”. DiaSorin è riuscita a tenere il passo con l’esplosione della pandemia di Covid-19 grazie alla sua presenza internazionale: “Siamo presenti su tutti i cinque continenti – prosegue Fava – e avere una sede anche in Cina ci ha permesso di intercettare e studiare da vicino l’impatto e le conseguenze del virus fin dai primi momenti, e in sei settimane abbiamo sviluppato il test”.

 

Solo nel mese di marzo, DiaSorin ha completato gli studi per supportare l’approvazione del kit da parte dell’Unione europea, presso l’Ospedale Spallanzani di Roma e il Policlinico San Matteo di Pavia. Ha ottenuto l’autorizzazione all’uso di emergenza dalla Food and drug administration (FDA), l’ente governativo degli Stati Uniti che si occupa della regolamentazione che riguarda i prodotti alimentari e farmaceutici. E ha ricevuto 679.000 dollari di fondi federali dalla Biomedical Advanced Research and Developement Authority (BARDA), ente federale del dipartimento statunitense della Salute, che ha finanziato direttamente il progetto per accelerare la disponibilità di test. “Un riconoscimento che vale più del finanziamento in sé”, dice Fava, soprattutto per un’azienda che negli ultimi quattro anni ha investito circa 250 milioni di euro in ricerca e sviluppo.

 

Ad ora, i duemila dipendenti dell’azienda, in buona parte biologi, chimici e ingegneri biomedici, producono 300.000 kit al mese, di cui 100.000 circa sono destinati all’Italia e i restanti 200.000 agli Stati Uniti e ad altri paesi europei. Ma lavorano per incrementare la produzione nel più breve tempo possibile, con l’obiettivo di raggiungere presto i 450.000 kit al mese. DiaSorin prevede che questo aumento sarà sostenibile a attuabile in breve tempo perché, a differenza dei farmaci e dei vaccini, i kit hanno un iter di produzione molto più semplice: non hanno bisogno di lunghi tempi tecnici dovuti alla necessità di effettuare sia test in vitro (sulle cellule) sia in vivo (sugli animali e sugli esseri umani) e, di conseguenza, hanno un basso costo di produzione. Inoltre, il kit diagnostico sarebbe in grado di rilevare il virus anche qualora dovesse mutare, perché ne riconosce alcuni elementi caratteristici, cioè alcune sequenze del suo RNA, che si prevede rimarranno invariate a ogni mutazione.

 

“Il cuore dell’azienda è in Italia”, dice Fava. “Il 55 per cento della produzione avviene qui e ci teniamo particolarmente a dare un contributo per combattere la pandemia nel nostro paese”. Gli altri siti produttivi sono in Germania, Inghilterra, California e Minnesota. Vicino a quest’ultimo si trova un’altra grossa azienda, dalla quale DiaSorin ha comprato proprio quella tecnologia che oggi le ha permesso di avere un ruolo centrale nel contrasto alla prima pandemia del terzo millennio. Quell’azienda si chiama 3M, è popolare soprattutto per i post-it – lo sta diventando anche per le mascherine Ffp – e un tempo era proprietaria della tecnologia dei kit portatili. Durante la guerra del Golfo, infatti, per rispondere alle necessità dei militari americani impegnati al fronte, che potevano entrare in contatto con patogeni (nuovi o comunque pericolosi) lontano da ogni struttura che potesse assomigliare a un laboratorio di diagnosi, la 3M sviluppò un macchinario compatto e resistente che si poteva caricare su una jeep, poteva essere trasportato in qualunque parte del mondo e che era in grado di fornire rapidamente diagnosi su decine di patogeni diversi. Nel 2016, poi, DiaSorin ha acquistato quella tecnologia per 300 milioni di dollari, nell’ambito di un progetto che la portò ad affiancare la diagnostica molecolare alla più tradizionale immunodiagnostica.

 

La retorica di guerra, sebbene senza un valido motivo, domina la narrazione di questa pandemia e durante un’altra guerra ha avuto la sua lontana origine la tecnologia che ha oggi portato al kit di diagnosi di DiaSorin. I risultanti eccellenti della specie umana sono sempre scaturiti da una fortissima motivazione. E la motivazione nasce da un desiderio infuocato di conoscenza, di scoperta e di esplorazione; oppure da una impellente necessità. Ora stiamo vivendo la storia, quindi non è ancora il tempo di interpretarla. Ma ci possiamo concedere un auspicio: quando finirà la necessità, che rimanga vivo il desiderio.

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