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Si fa presto a dire Eurobond

Lorenzo Bini Smaghi

Si può parlare di bond comuni a due condizioni. Primo: accettare di trasferire nuove competenze economiche e sociali in Europa. Secondo: sbloccare immediatamente il Mes. Chi ci sta? Discutiamone, ma senza ipocrisie

Non passa oramai giorno senza che non venga lanciata, da qualche accademico, esponente politico o governativo, un appello ad emettere degli Eurobond – cioè dei titoli di stato europei – per finanziare gli interventi necessari a contrastare la crisi del Coronavirus. Qualcuno li ha addirittura chiamati Coronavirus Bond. Gli Eurobond sembrano in effetti essere l’uovo di Colombo nella situazione attuale. Consentirebbero agli stati europei di reperire capitali per sostenere maggiori spese o minori entrate, senza indebitarsi direttamente. L’idea sembra geniale, almeno in teoria. In pratica, non è facilmente realizzabile. Il motivo non è che altri paesi – in particolare la famigerata Germania – si oppongono. E’ piuttosto che le condizioni per realizzarla sono difficilmente praticabili dal punto di vista politico, almeno nel breve periodo. Il punto da capire è che qualsiasi titolo di debito che viene emesso sul mercato deve avere delle garanzie, che convincano eventuali acquirenti che almeno gli interessi vengano regolarmente pagati e che il capitale sia finanziariamente sostenibile. Le garanzie dei titoli di debito pubblico sono rappresentate in generale dal patrimonio pubblico e dalla capacità dello stato di generare un flusso di entrate tributarie adeguato nel tempo. Più dubbi ci sono sulle garanzie, più elevato è il premio di rischio richiesto dall’investitore, ossia il tasso d’interesse.

 

Non è un caso che il rischio – e pertanto il tasso d’interesse – sul debito italiano sia più elevato di quello medio degli altri paesi europei. Ciò è dovuto alla crescita italiana sistematicamente più debole di quella europea negli ultimi 20 anni, al debito pubblico più alto, in proporzione al Prodotto lordo, e alle incertezze sulla volontà politica di rimanere nell’area dell’euro.

 

Visto che il rischio sul debito pubblico degli altri paesi europei è inferiore a quello italiano, si potrebbe pensare che un titolo europeo possa beneficiare di un tasso d’interesse inferiore, e che ci sia un vantaggio ad indebitarsi a livello comunitario piuttosto che nazionale.

 

Purtroppo, non è così. Un titolo europeo, cioè un Eurobond emesso da una istituzione Europea – ad esempio la Commissione europea – i cui proventi finanziari verrebbero distribuiti agli stati membri per intervenire a sostegno delle rispettive economie, avrebbe un rischio molto elevato se privo delle necessarie garanzie. In effetti, non vi è oggi né un patrimonio europeo né una capacità europea di generare risorse tributarie autonome, che possano essere usati come garanzie per titoli di debito europeo.

 

Per poter emettere Eurobond, l’Unione europea dovrebbe poter generare risorse fiscali nuove, da reperire attraverso nuovi tributi. Il rendimento sugli Eurobond si allineerebbe sui rendimenti dei paesi con miglior merito di credito, coerente cioè con un rating tripla A della Germania o dei Paesi bassi o anche doppia A della Francia, del Belgio o dell’Austria, solo se questa capacità fiscale fosse diretta, ossia decisa ed eseguita direttamente dalle istituzioni europee. In altre parole, dovrebbe essere dato all’Unione europea il potere di stabilire e percepire direttamente alcune imposte nei paesi membri, senza che questi possano interferire.

 

Il modo più semplice per assicurare tale vincolo sarebbe quello di creare un vero e proprio bilancio europeo, nel quale verrebbero specificate le voci di entrata e di spesa che passerebbero dal controllo nazionale, ossia dei parlamenti nazionali, a quello europeo.

 

Si potrebbe ad esempio decidere che la sanità non sia più competenza nazionale ma diventi europea. Ciò comporterebbe il trasferimento a livello comunitario delle decisioni che sono attualmente di pertinenza nazionale o regionale, dai ticket sanitari alle imposte per finanziare i costi di struttura e di funzionamento, dai contratti dei medici e para-medici alle decisioni su quali ospedali tenere aperti e quali eventualmente chiudere, ecc. Sarebbero dunque le istituzioni europee a decidere il livello della spesa sanitaria nei vari paesi e come coprirla, attraverso maggiori tasse o contraendo nuovo debito. Si potrebbero fare altri esempi di settori del bilancio che potrebbero essere finanziati attraverso meccanismi europei, incluso l’indebitamento, come l’assistenza contro la disoccupazione o il sistema pensionistico, ma ciò comporterebbe il trasferimento al livello comunitario delle decisioni in questi settori, inclusa l’età pensionabile, i contributi previdenziali e le norme che regolano il mercato del lavoro. Una tale scelta non è impossibile, anzi forse desiderabile in alcuni settori. Non si può tuttavia ignorare che ciò comporti un trasferimento di sovranità molto rilevante, che probabilmente non tutti i paesi sono pronti ad affrontare, inclusa l’Italia.


Gli Eurobond possono essere emessi per finanziare spesa corrente solo se i poteri di gestire quella spesa vengono trasferiti a livello europeo


In sintesi, gli Eurobond possono essere emessi per finanziare spesa corrente solo se i poteri di gestire quella spesa, e di coprirne le entrate, vengono trasferiti a livello europeo. Chi propone l’adozione di Eurobond deve pertanto specificare quali componenti del bilancio nazionale, dal lato delle entrate e delle spese, dovrebbero essere sottratti alla potestà del parlamento nazionale e regionale e trasferiti a livello dell’Unione. Senza questo chiarimento la proposta non sta in piedi, e crea inutili illusioni.

 

Per evitare il problema delle garanzie, è stato proposto da alcuni osservatori che gli Eurobond vengano acquistati direttamente dalla Banca centrale europea, al momento dell’emissione. Ciò non è consentito legalmente, né sarebbe peraltro desiderabile. Gli statuti della BCE – come quelli di tutte le banche centrali di paesi avanzati – non consentono l’acquisto di titoli pubblici o privati sul mercato primario. Questo divieto nasce proprio dall’intenzione di evitare che la moneta venga usata come strumento fiscale non democraticamente legittimato dal parlamento o per falsare i prezzi di mercato. L’acquisto di titoli da parte della banca centrale a un valore nominale, che sarebbe superiore a quello di mercato in assenza delle garanzie spiegate sopra, comporterebbe una perdita di bilancio che comunque si tradurrebbe in minori utili retrocessi ai tesori nazionali. Rappresenterebbe di fatto un esproprio del capitale dell’istituto di emissione. Peraltro, l’articolo 21 dello statuto della BCE che vieta il finanziamento monetario degli stati e non può essere modificato se non con l’accordo di tutti gli stati membri, con ratifica da parte di ciascuno stato secondo le procedure previste. Anche se ci fosse il consenso tra i vari paesi, il che non è attualmente il caso, la procedura potrebbe prendere molto tempo.

 

Il problema delle garanzie non si porrebbe se gli Eurobond venissero emessi per finanziare progetti infrastrutturali europei. Tuttavia, i proventi della gestione delle infrastrutture dovrebbero essere trasferiti automaticamente a livello europeo, in base allo stesso ragionamento di cui sopra.

 

Anche in questo caso, deve trattarsi di infrastrutture e di asset nuovi. Se, come è stato proposto da qualche osservatore, venissero messi a garanzia degli eventuali Eurobond delle infrastrutture o degli asset esistenti, come le partecipazioni statali, si avrebbe come effetto di diminuire le garanzie sui titoli di stato in essere dei paesi membri, con il rischio di ridurne il merito di credito e di aumentarne il tasso d’interesse al momento al momento del rinnovo alla scadenza. Ad esempio, se l’Italia utilizzasse parte del patrimonio nazionale – immobiliare o mobiliare – per l’emissione di Eurobond, i titoli di debito pubblico italiano in essere diventerebbero più rischiosi e il loro rinnovo alla scadenza comporterebbe un aumento degli interessi. In conclusione, gli Eurobond non possono essere usati per finanziare spesa corrente, a meno di trasferimenti importanti di sovranità dal livello nazionale al livello europeo.

 

Che cosa può essere fatto, allora, in concreto?

 

Una soluzione, che è attualmente in discussione a livello europeo, consiste nel far emettere titoli obbligazionari europei da una istituzione comune come il Meccanismo Europeo di Stabilità, che ha un rating Tripla A, grazie a una serie di garanzie sul proprio capitale conferita dai paesi membri. Il MES ha già emesso titoli per finanziare prestiti agli stati membri che hanno contratto un programma di aggiustamento, come la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda. Il MES ha la possibilità di emettere ancora circa 400 miliardi di euro. I proventi di questa emissione verrebbero prestati ai paesi membri che ne fanno domanda.

 

Questo meccanismo comporta un aumento del debito pubblico dei paesi che ne usufruiscono, anche se sotto forma di debito bilaterale nei confronti del MES piuttosto che di titoli obbligazionari venduti sul mercato. Il vantaggio è che il costo del debito è più basso, in particolare per i paesi che hanno un rating inferiore alla Tripla A, e che non ci sono rischi di liquidità e di rifinanziamento per la durata del prestito.

 

Il problema di questo meccanismo riguarda le condizioni alle quali il MES può erogare i fondi ai paesi che ne fanno richiesta. Le procedure esistenti prevedono che debba essere concordato con le istituzioni europee un programma di aggiustamento finanziario. Ciò crea, nel contesto attuale, un problema reputazionale per gli stati membri, perché le esigenze finanziarie non derivano tanto da difficoltà provocate da una gestione imprudente delle finanze pubbliche quanto da una crisi sistemica, dovuta ad un fattore esogeno come il Coronavirus.

 

La proposta di riforma del MES, che l’Italia finora blocca, prevede linee di credito precauzionali con condizionalità leggera. E’ possibile concordare una condizionalità ancor più leggera, legata ad un monitoraggio ex post delle risorse utilizzate per far fronte all’emergenza economica provocata dalla crisi sanitaria. Rimane anche in questo caso un problema di stigma. Se ad usare questi fondi fosse un solo paese, o un gruppo limitato di paesi, ciò potrebbe essere interpretato, dal punto di vista politico o dell’accesso ai mercati finanziari, come un segnale di debolezza. Se invece vi facessero ricorso tutti i paesi dell’area dell’euro, la dimensione europea dello strumento tenderebbe a prevalere e non ci sarebbe più alcun stigma. D’altra parte, alcuni paesi, in particolare quelli con rating tripla A o doppia A, non avrebbero un vantaggio materiale ad usare questo strumento, dato che già si indebitano a tassi relativamente bassi. Inoltre, maggiore sarebbe il numero di paesi partecipanti, più limitati sarebbero i fondi a disposizione di ciascuno. Se ad esempio tutti i paesi partecipassero, secondo una chiave di ripartizione basata sul reddito nazionale e la popolazione, l’Italia potrebbe ottenere circa 70 dei 400 miliardi disponibili. L’ammontare sarebbe ben maggiore se i paesi con tassi d’interesse più bassi non facessero ricorso a questa facility del MES. Si tratta dunque di avere un numero di paesi sufficientemente ampio per evitare lo stigma, senza “sprecare” le risorse per paesi che hanno maggiore possibilità di indebitarsi direttamente sul mercato.La capacità di indebitamento del MES può essere ovviamente aumentata oltre i 400 miliardi, basta aumentarne il capitale con contributi degli stati membri.


La Bce dovrebbe continuare a concentrare i suoi acquisti sui titoli esistenti, emessi dagli stati nazionali o da emittenti privati 


Un punto finale riguarda il coinvolgimento della Banca centrale europea. Molte proposte fatte in questi giorni chiedono che la BCE acquisti i titoli emessi dal MES nell’ambito della sua politica di quantitative easing, che in seguito all’annuncio della settimana scorsa supera i mille miliardi di euro. Sarebbe un errore. I titoli emessi dal MES hanno il rating più elevato e sono pertanto molto richiesti, soprattutto in questa fase di instabilità dei mercati. Sono peraltro appetibili non solo per le istituzioni finanziarie europee, in particolare le banche che hanno in bilancio un eccesso di titoli di stato nazionali, ma anche per quelle non-europee, come titolo sintetico europeo di ottima qualità. Il titolo emesso dal MES è di fatto il “safe asset”, cioè privo di rischio, europeo.

 

Non ha dunque alcun senso che la BCE crei liquidità acquistando un titolo già liquido e sicuro come quello emesso dal MES, che gli operatori finanziari richiedono in abbondanza. Non sarebbe il modo migliore per far fronte alle attuali tensioni dei mercati finanziari, generati dal desiderio degli operatori di disfarsi dei titoli meno liquidi, che creano forti divaricazioni degli spread. La BCE dovrebbe piuttosto continuare a concentrare i suoi acquisti sui titoli esistenti, emessi dagli stati nazionali o da emittenti privati. Ciò consentirebbe di assecondare al meglio la domanda di liquidità, sostituendo attività finanziarie con moneta di banca centrale. Consentirebbe anche di ridurre il rischio di illiquidità, fin quando i titoli detenuti dalla BCE vengono rinnovati alla loro scadenza, il che dovrebbe essere a lungo il caso come suggerisce l’esperienza americana.

 

Vale la pena ricordare al riguardo che l’Eurosistema – ossia la BCE più le banche centrali nazionali dei paesi dell’area dell’euro – detiene attualmente circa il 20 per cento del debito pubblico italiano, per effetto delle misure messe in atto fino ad ora. Le decisioni di questi giorni comportano la possibilità di ulteriori acquisti per circa il 10 per cento. Ciò significa che, al netto dei titoli detenuti dalle autorità monetarie, il debito pubblico italiano ammonterebbe a meno del 100 per cento del Prodotto lordo. In conclusione, il dibattito sugli Eurobond pone – soprattutto all’Italia – due importanti scelte politiche. La prima consiste nel farsi promotore di un ampio trasferimento di competenze economiche e sociali dal livello nazionale a quello europeo, necessario per dare all’Unione la capacità di finanziare titoli europei. La seconda è quella di togliere il veto alla riforma del MES, magari rafforzandone ulteriormente il potenziale con una condizionalità calibrata anche per i casi di crisi sistemiche.

 

Le due scelte non sono necessariamente alternative. Possono anzi essere complementari e portate avanti con una diversa scadenza temporale. Vanno tuttavia fatte in modo esplicito. Altrimenti è inutile, e illusorio, parlare di Eurobond.

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