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“Più spendi, meno paghi”: la logica alla rovescia della guerra al cash

Dario Stevanato

Tutto quello che non torna nella proposta del governo all’insegna della lotta all’evasione

Molti economisti hanno teorizzato i vantaggi e la superiorità di un’imposta sulla spesa complessiva, con esenzione del risparmio, spesso invocando il teorema della “doppia tassazione del reddito risparmiato”, che verrebbe tassato sia al momento della produzione del reddito sia nei cicli economici successivi, generando interessi anch’essi tassati. Un’imposta sulla spesa complessiva, se venisse un giorno attuata superando i problemi tecnici di progettazione, potrebbe inoltre essere resa progressiva. Non può dunque non sorprendere la lettura dei giornali italiani, da cui si apprende che il governo starebbe immaginando, per favorire l’utilizzo dei mezzi di pagamento elettronici e tracciati, una detrazione crescente e progressiva parametrata ai consumi del periodo, che avvicinerebbe l’Irpef a un’imposta sul solo reddito risparmiato, in controtendenza rispetto ai suggerimenti della teoria economica, e per giunta regressiva. La proposta, lanciata all’insegna della “lotta all’evasione” e del consunto mantra “pagare tutti, pagare meno”, prevede nelle sue linee generali, appena abbozzate, un meccanismo secondo cui i pagamenti effettuati con carte di pagamento elettronico darebbero luogo, una volta superata una certa soglia (2 o 5 mila euro), a una “detrazione progressiva fino al 10 per cento”. Ciascun consumatore avrebbe quindi un vantaggio a utilizzare la moneta elettronica in luogo del contante, posto che da ciò deriverebbero crescenti risparmi fiscali. La detrazione non sarebbe, in altre parole, concessa in relazione ai singoli acquisti tracciati, ma in ragione dell’ammontare complessivo della spesa. 

 

 

Un’idea del genere suscita due ordini di considerazioni. Il primo riguarda gli effetti sul gettito, che sarebbero verosimilmente opposti rispetto a quelli sperati: una detrazione non selettiva, cioè mirata a determinati settori a maggior rischio di evasione (si pensi alle ristrutturazioni edilizie), rischia di attribuire detrazioni fiscali in modo indiscriminato provocando così cospicue perdite di entrate: il bonus verrebbe concesso anche a fronte di pagamenti nei confronti di fornitori affidabili e che non evadono (si pensi alle spese con carta elettronica nella grande distribuzione), così come nei confronti di fornitori esteri che versano le imposte nel loro paese. Resterebbe peraltro ferma, anche nell’ipotesi più generosa (detrazione del 10 per cento), la convenienza a concordare col fornitore una transazione in nero, giacché l’Iva risparmiata sarebbe del 22 per cento. 

 

 

Ma oltre a essere un’opzione suicida sul piano del gettito, la proposta avvantaggerebbe soprattutto i contribuenti con maggiori capacità di spesa e quindi quelli con redditi più elevati, dato che la detrazione – superata la soglia iniziale – aumenterebbe più che proporzionalmente all’aumentare della spesa complessiva. Si avrebbe così, al tempo stesso, una sorta di “minimo vitale” rovesciato (anziché esentare i redditi minimi destinati a consumi primari, verrebbe esentato o comunque tassato di meno il reddito-speso superiore alla soglia), e un andamento regressivo del prelievo fiscale, a rischio incostituzionalità. A maggiori consumi corrisponderebbero minori imposte, secondo una logica del “più spendi e meno paghi”: all’aumentare della spesa aumenterebbe progressivamente la detrazione, con sgravi di imposta crescenti per i soggetti più abbienti. In questo modo, gli effetti distorsivi comunemente associati alle “deduzioni” dal reddito imponibile, che favoriscono i redditi più elevati, verrebbero estesi alle “detrazioni d’imposta”, che invece si fanno normalmente preferire proprio perché trattano allo stesso modo tutti i contribuenti, generando uguali risparmi d’imposta (salvo il problema degli incapienti) e vengono semmai a volte rese decrescenti all’aumentare del reddito, innalzando le aliquote marginali effettive e contribuendo così alla progressività del prelievo. 

 

 

Il nostro paese assomiglia sempre più a un laboratorio, in cui a fare da cavia ci sono i contribuenti. 


Dario Stevanato, Università di Trieste

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