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Motivi per non inseguire la repressione del contante. Parla Boccadutri

Alberto Brambilla

L'ex deputato, esperto di sistemi di pagamento, ci spiega perché applicare nuove commissioni può agevolare chi ha una propensione al consumo più alta. E innescare una migrazione di conti corrente all'estero

Roma. Per il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, “uno dei pilastri” dell’azione di governo è “quello di combattere l’evasione per ridurre le tasse su famiglie e imprese”. “Per farlo – ha detto nella sua prima intervista a Repubblica – intendiamo avvalerci dell’innovazione tecnologica e della digitalizzazione”. Quale sia la modalità per riuscirci preferita dal governo Pd-M5s è in discussione. Intanto la Confindustria con il suo centro studi ha pubblicato un contributo nel quale suggerisce di disincentivare l’uso del contante con una commissione del 2 per cento per chi preleva più di 1.500 euro al mese e di incentivare l’uso dei pagamenti elettronici con un credito di imposta per chi invece li usa. Sergio Boccadutri, ex parlamentare nonché esperto in sistemi di pagamento, non prende alla leggera l’ipotesi che parrebbe una panacea sia per diffondere l’uso delle transazioni digitali sia per recuperare il sommerso ricavandone gettito. “Utilizzare la leva fiscale è un approccio sbagliato di uno stato che per regolare decide di tassare. E’ poi di dubbia utilità per due motivi – aggiunge Boccadutri – Da un lato, il credito di imposta sugli strumenti di pagamento sarebbe regressivo: significherebbe dare un vantaggio fiscale a chi ha una propensione al consumo più alta e può spendere di più, il ticket medio di una spesa con carta è di circa 70 euro, il doppio rispetto alla media europea. Per i più abbienti il credito di imposta non sarebbe quindi un incentivo (userebbero comunque i pagamenti elettronici come fanno già), ma un vantaggio rispetto a chi ha minore capacità di spesa e usa il contante. Dall’altro lato, ‘tassare’ il contante sarebbe un modo per tassare due volte del denaro che è già oggetto di imposta, in quanto derivante da un profitto già sottoposto a tassazione e quindi del tutto trasparente rispetto all’autorità fiscale: difficilmente una persona che ha contanti guadagnati a nero si presenta in banca e fa un versamento”.

 

Altro effetto perverso sarebbe la tesaurizzazione al di fuori dei circuiti bancari. “Farlo per prelievi sopra i 1.500 euro comporta che chi si fa pagare in modo legittimo potrebbe decidere di non versare quel denaro in banca ma depositarlo in una cassetta di sicurezza perché sa che al prelievo dovrà eventualmente pagare una ‘tassa’ del 2 per cento”. Al di là di considerazioni teoriche, secondo Boccadutri è preoccupante che simili proposte non tengano conto del contesto europeo dove il sistema bancario è interconnesso e avanzato. “Se ho una carta collegata con un conto bancario all’estero, in Francia o Germania – dice – il legislatore italiano non può imporre il calcolo del credito di imposta per il 2 per cento su un pagamento elettronico a quell’istituto straniero”. L’esempio più calzante per spiegare perché il meccanismo è fallace sono le detrazioni per le ristrutturazioni edilizie, che sono possibili solamente se la transazione avviene con bonifico da una banca italiana, non estera. Questo perché non si può obbligare un istituto straniero a operare quale sostituto di imposta per il fisco italiano. “Quando si parla di prelievi di contanti, allo stesso modo l’operazione è impossibile: se prelevo con una carta basata su un conto tedesco, di cui sono cliente, da uno sportello italiano non è possibile imporre a quell’istituto straniero di trattenere il 2 per cento da un ammontare di 1.500 euro mensili”. Il rischio di una  migrazione di conti correnti dall’Italia all’estero per sfuggire alla repressione non è secondario. Secondo Boccadutri, per spingere i pagamenti elettronici si dovrebbe avere un approccio pragmatico “a cominciare dall’applicare sanzioni agli esercenti che, con la scusa delle commissioni troppo alte, quando non è vero perché sono nella media europea o inferiori, si rifiutano di usare i dispositivi Pos in modo che i consumatori siano messi nella condizione di decidere come pagare”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.