foto LaPresse

Abbiamo abolito i disoccupati

Stefano Cingolani

Nei paesi sviluppati sono ai minimi storici. Ma in Italia la cultura dell’assistenzialismo crea solo danni

La disoccupazione? Non c’è più, scomparsa, dissolta. I paesi che producono due terzi della ricchezza, dei beni e dei servizi che circolano nel mondo hanno raggiunto in pratica il pieno impiego della forza lavoro, come dicono gli economisti. Non ci credete? Leggiamo allora qualche cifra: il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è al 3,5 per cento (gli ultimi dati sull’aumento dei posti di lavoro paradossalmente hanno indispettito Donald Trump che vuole un taglio dei tassi di interesse); in Cina è al 3,7 per cento (qui mettiamo le mani avanti perché le statistiche di Pechino vengono spesso manipolate): e ancora in Giappone 2,5 per cento, Germania 3,2, Regno Unito 3,8, Israele 3,9, Olanda 2,5 per cento, e possiamo continuare. Per trovare una situazione tanto favorevole occorre risalire agli anni ’70 del secolo scorso, prima che scoppiasse la crisi petrolifera. Abbiamo citato paesi che hanno valute diverse, collocati in aree geografiche diverse, con governi diversi e diverse politiche fiscali. Si può dire che sono accomunati dalle Banche centrali le quali un po’ ovunque hanno stampato carta e, paradosso dei paradossi, hanno avuto più successo nel combattere la disoccupazione che nel far salire l’inflazione. Ma la moneta bollente è circolata copiosa anche in quel pugno di paesi che non ha partecipato alla bonanza. In Europa sono i Pigs, accomunati dall’antipatico acronimo coniato dai guru della Goldman Sachs: Portogallo (al 6 per cento, anche se ha fatto un gran progresso rispetto al 12,7 del 2015), Italia (9,9 per cento), Spagna (14 per cento), Grecia (16 per cento). A essi vanno aggiunti gli emergenti che hanno deluso le grandi speranze sollevate: Brasile (12,7 per cento), Argentina (9 per cento), Turchia (16 per cento), mentre nel mezzo si colloca l’India con il 6 per cento. C’è un’eccezione tra i grandi, la Francia con l’8 per cento, a conferma che questa impressionante marcia verso la piena occupazione non è stata favorita solo da una congiuntura favorevole che, con alti e bassi, dura ormai da un decennio, ma anche da un mercato del lavoro reattivo (non usiamo flessibile che ormai sembra quasi una bestemmia), libero da zavorre, impedimenti, impacci, lacci e laccioli, pur con tutti i diritti, le protezioni, le conquiste della modernità.

 


Ci raccontano che viviamo in un mondo stagnante con masse di disoccupati in rivolta contro le élite. I numeri dicono il contrario. Il fenomeno più eclatante è che piena occupazione e spinta retributiva non creano inflazione. S’avanzano nuovi modelli


 

Ci raccontano che viviamo in un mondo stagnante dove masse di proletari senza lavoro, i nuovi dannati della terra, sono in rivolta contro le élite che li hanno affamati, togliendo loro l’emblema stesso della dignità umana; ci dicono che ormai fanno tutto i robot e agli uomini non resta che riscuotere un reddito di cittadinanza; ci bombardano con spiegazioni da economicismo volgare per spiegare quella guerra tra poveri che spinge gli abitanti dell’occidente a erigere muri contro i disperati del terzo mondo; ci ossessionano con la polemica contro il pensiero unico, con i fallimenti del mercato, con il collasso del sistema liberal-democratico. Tutte balle gonfiate come bolle. L’irrompere del nazional-populismo è una cosa seria, ma non si può interpretare con cifre false; la rivoluzione digitale che distrugge il vecchio e crea il nuovo è decisiva, ma non può diventare fantascienza; gli squilibri economici tra paesi e all’interno dei singoli paesi sono un puzzle non risolto, ma non serve manipolare la realtà per trovare le soluzioni.

 

La disoccupazione, quella congiunturale, potrà tornare, anzi possiamo dire senza sbagliare che tornerà non appena la crescita, che oggi già rallenta, diventerà recessione. Tuttavia negli ultimi cinque anni nei paesi dell’Ocse sono stati creati 43 milioni di posti di lavoro. Si è ridotta la disoccupazione di lunga durata, quella giovanile e quella dei lavoratori non specializzati. Scrivono che si tratta di lavoretti, per lo più precari e mal pagati, insomma che è stata tagliata la “buona occupazione”, intendendo con questo i posti di lavoro presidiati da maschi adulti con una qualifica medio-alta, a favore di impieghi di bassa qualità. E’ vero, quella fascia di lavoratori ha perso oggi circa il 10 per cento sul totale dell’occupazione, per contro la cosiddetta gig economy che fa tanto notizia copre appena l’un per cento. Si pontifica che c’è stata una forte polarizzazione quindi sono aumentate le posizioni ai due estremi, però non è esattamente così. Soprattutto si sottovalutata l’aumento della occupazione femminile che sta cambiando l’intero mondo del lavoro.

 

Prendiamo gli Stati Uniti la cui economia continua a creare nuovi posti da cento mesi consecutivi. Il tasso di disoccupazione non è mai stato così basso negli ultimi cinquant’anni. Le persone che prima avevano seri problemi a trovare un salario, oggi non solo hanno un impiego, ma vedono le loro retribuzioni crescere. Ciò vale, scrive il Wall Street Journal citando le cifre ufficiali, sia per le minoranze razziali, sia per chi non ha una particolare specializzazione. Il Mississippi, stato del sud che tradizionalmente veniva indicato come uno dei più svantaggiati, oggi ha un tasso di disoccupazione di appena il 5 per cento (in Iowa e New Hampshire siamo al 2,4, livelli giapponesi). Sono state messe in opera politiche attive che puntano soprattutto sull’apprendistato: 20 dollari l’ora per imparare a saldare; una volta acquisita la qualifica, possono superare anche i 27 dollari. Sono salari niente male che si collocano in una forchetta molto ampia, dai 60 dollari l’ora per chi lavora nel software agli 11 dollari per chi si occupa di assistere gli anziani. E’ solo una delle contraddizioni in un mercato vario e flessibile che mostra la sua forza nei momenti di crescita e la sua debolezza quando arriva la bassa congiuntura. L’altra contraddizione riguarda il livello di istruzione. Chi ha lasciato anzi tempo la scuola, chi non ha nemmeno un pezzo di carta, rischia di essere tagliato fuori non solo dai settori più avanzati dell’industria e dei servizi ad alto valore aggiunto, ma anche da impieghi più semplici. Secondo il dipartimento del lavoro, quattro su sei delle occupazioni più offerte dalle aziende di qui al 2026 richiederanno almeno il diploma di scuola superiore. E’ vero che oggi solo il 6 per cento della forza lavoro si trova in queste condizioni (nel 1960 era il 40 per cento e questo dimostra come si sia elevato il tasso medio di educazione scolastica, magari a scapito molto spesso della qualità), tuttavia il rischio che si formi una sacca emarginata, destinata a essere sempre assistita, è molto serio, soprattutto non appena il boom americano comincerà a sgonfiarsi.

 

Questo aumento parallelo dell’occupazione e dei salari non sarebbe possibile in un mercato bloccato, rigido, inscatolato in contratti di lavoro nazionali uguali per tutti ovunque e comunque. E’ il caso dei paesi mediterranei e in buona parte anche della Francia che, non a caso, non tiene il passo con i migliori. Nel Vecchio continente, la condizione peggiore è ancora in Grecia e in Spagna, in particolare nelle regioni che registrano il record di disoccupati, come la Macedonia occidentale, dove il 29,1 per cento dei residenti risulta senza lavoro, seguita da Melilla, enclave spagnola in territorio marocchino, dove il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 27,6 per cento. La regione italiana peggiore resta la Calabria, con oltre il 21 per cento di disoccupati. Il tasso di disoccupazione in Italia era del 6,7 per cento nel 2008 all’inizio della grande crisi, ha toccato il picco nel 2014 con il 12,7, ora è sceso al 9,9, ciò vuol dire che non sono stati ancora recuperati i livelli di dieci anni fa. Colpa di una lunga stagnazione, certo, ma il mercato del lavoro presenta un vero e proprio “trialismo” che si è ridotto in alcune brevi fasi, per approfondirsi di nuovo nel decennio della lunga recessione.

 

C’è una Italia, al nord e in parte del centro, che s’avvicina alla piena occupazione appena il prodotto lordo cresce di circa un punto percentuale. Lombardia e Veneto viaggiano come le migliori regioni d’Europa sia come pil sia come posti di lavoro. Questa Italia assomiglia alla Germania, la disoccupazione qui è legata soprattutto alla congiuntura oppure è frizionale, determinata dalla riconversione verso assetti tecnologici più avanzati. C’è poi una Italia protetta nella quale prevale il lavoro nella Pubblica amministrazione, con il mito del posto fisso, dalla culla alla tomba, magari tramandato di padre in figlio. Questa Italia assomiglia alla Grecia, è stata foraggiata dal debito pubblico, viene blandita dai politici ed è alimentata anche dal governo giallo-verde. Ma non sta più in piedi. La terza Italia è quella chiusa nella trappola del sottosviluppo, si estende da Napoli verso sud con l’eccezione di alcune zone della Puglia e della Sicilia. Qui il miglioramento della congiuntura ha un effetto limitato mentre la distruzione creatrice diventa solo distruzione e la disoccupazione storica s’aggiunge a quella strutturale e a quella tecnologica. L’Italia è in coda anche nella classifica dei laureati che trovano lavoro: sono appena il 62 per cento poco più che in Grecia dove sono il 59 per cento, la Spagna va meglio con il 77,9; in Germania, in Svezia, in Olanda, siamo abbondantemente oltre il 90 per cento, un po’ indietro la Francia (84,4 per cento) il che conferma le difficoltà di un mercato del lavoro ancora troppo rigido. Emmanuel Macron che ha tentato di allentare i vincoli, è stato fermato dalle proteste. In Italia dove Matteo Renzi con il Jobs Act aveva cercato di introdurre alcuni elementi nord-europei, il governo “del cambiamento” ha avviato una vera e propria restaurazione, creando nuovi colli di bottiglia.

 


Negli ultimi cinque anni nei paesi dell’Ocse sono stati creati 43 milioni di posti di lavoro. Si è ridotta la disoccupazione di lunga durata. Il tasso di disoccupazione in Italia era del 6,7 per cento nel 2008, ha toccato il picco nel 2014 con il 12,7, ora è sceso al 9,9


 

I paradossi italiani emergono a poco a poco dalle nebbie della propaganda populista. Aveva cominciato a lanciare l’allarme una delle aziende laniere più antiche e avanzate di Biella: la Vitale Barberis Canonico cercava tecnici e ingegneri elettronici per rinnovare la linea produttiva applicando le tecnologie digitali, posto fisso, stipendio buono (sopra i duemila euro), ma per mesi e mesi le sue richieste sono cadute nel vuoto. Era rimasta una voce sopraffatta dallo strepito, dal clamore, dal chiacchiericcio mediatico-politico che ha preparato il ribaltone nazional-populista. Oggi basta girare nelle grandi città (Napoli compresa) per trovare cartelli che annunciano la ricerca di personale, nei negozi e nei servizi alla clientela si richiede la conoscenza di una lingua straniera, almeno l’inglese, ma è difficile trovare chi vada oltre l’ok e il goodbye. La moda soffre, anche nel sud. Carlo Casillo patron della Push di Nola ha lanciato un appello sul Mattino: da sette mesi cerca sarti prototipisti, cioè che siano in grado di cucire un abito dall’inizio alla fine, e non li trova. Ora s’è aggiunto Giuseppe Bono, il gran capo della Fincantieri: “Nei prossimi 2-3 anni avremo bisogno di 5-6 mila lavoratori ma non so dove andarli a trovare – si lamenta – Si tratta di carpentieri, saldatori… Abbiamo lavoro per 10 anni, cresciamo ad un ritmo del 10 per cento, ma sembra che i ragazzi abbiano perso la voglia di lavorare”. E allora la disoccupazione giovanile? E la fuga dei cervelli? E la nuova emigrazione? E tutte le geremiadi che hanno riempito gli schermi e le pagine dei giornali? “Sento parlare tanto di lavoro, di crescita, di infrastrutture, di porti e autostrade – continua Bono – Io penso che noi fra un po’ avremo più università che laureati, più porti che navi, più aeroporti che passeggeri”. C’è un rifiuto del lavoro, come atteggiamento collettivo, che si è fatto strada in questa Italia ripiegata su se stessa, non ammetterlo significa nascondere il capo sotto la sabbia.

 

Accanto alle rigidità del mercato, alla burocrazia, a un “sindacato dei diritti” che ha preso il posto del “sindacato del lavoro”, c’è una componente molto importante che ha a che fare con l’educazione, quella familiare, oltre che scolastica, e con un benessere diffuso che ha generato una cultura della rendita a discapito di quella cultura della produzione che aveva caratterizzato l’Italia da sempre. Affinché la disoccupazione cominci davvero a calare, ci vuole più crescita, naturalmente (il pil nazional-populista è di poco superiore a zero, cioè 0,1 quest’anno e 0,7 se tutto va bene l’anno prossimo), ma occorre mettere da parte l’assistenzialismo (anche quando lo chiamano reddito di cittadinanza) e il protezionismo (soprattutto nella sua versione nativista, tipo prima gli italiani). E bisogna spingere i sindacati ad accettare quanto meno la logica laburista prevalsa nel nord Europa visto che un pregiudizio ideologico non consente di guardare agli Stati Uniti come a un modello virtuoso. Una delle scelte di fondo compiuta dai sindacati tedeschi, olandesi, scandinavi, nel bel mezzo della crisi, è stato accettare una riduzione della paga (e non solo dei suoi incrementi) per difendere il posto di lavoro. E’ un variante più efficace della cassa integrazione italiana che da strumento congiunturale si è trasformato in assistenzialismo strutturale.

 

La fine della disoccupazione nelle economie più forti e avanzate porta anche a un cambiamento del paradigma economico al quale eravamo abituati finora. Con i posti di lavoro, come abbiamo visto negli Usa, crescono rapidamente le buste paga. Anche se resta aperta una questione salariale, essa si concentra soprattutto nei servizi più semplici dove l’offerta di lavoro è maggiore. Ma il fenomeno più eclatante è che piena occupazione e spinta retributiva non creano inflazione. Ciò mette ancor più in discussione il modello rappresentato dalla curva di Phillips che dagli anni ’60 in poi ha ispirato le politiche economiche dei paesi industrializzati. Vediamo così davanti ai nostri occhi “quel che in economia non doveva accadere”, come ha scritto Neill Irwin sul New York Times, cioè il “grande boom dei posti di lavoro” segnalato un mese e mezzo fa dall’Economist sulla sua copertina. A metà del 2016 la Federal Reserve riteneva che il tasso di disoccupazione di lungo termine fosse il 4,8 per cento con una inflazione del 2 per cento, ma così non è, il che suggerisce che usare dati e categorie del secolo scorso allo scopo di mettere a fuoco le politiche per questo secolo non è esattamente una buona idea. Siamo tutti schiavi di qualche economista del passato, è uno degli aforismi più noti di John Maynard Keynes, ma vale anche per lui e per i suoi seguaci.