Viaggio sul lato oscuro dell'energia verde

Guillame Pitron

Un libro-inchiesta racconta quello che il popolo di Greta non vorrebbe leggere

Pubblichiamo un estratto dal libro “La guerra dei metalli rari” (Luiss University Press, 2019), l’autore è un giornalista e documentarista francese, vincitore nel 2017 del premio Erik Izraelewicz del Monde

 


 

Le tecnologie che ci piace qualificare come “verdi” non lo sono forse poi così tanto. Il loro impatto ecologico sarebbe in realtà considerevole ed è a Toronto, dove ci rechiamo nella primavera del 2016, che ce ne rendiamo conto. Nel cuore del Financial District, tutto il mondo minerario nordamericano, tra compagnie di sfruttamento, esperti, autorità pubbliche, esponenti di società di venture capital, società di consulenza e accademici, si è riunito nell’atmosfera ovattata di un grande hotel in occasione di una conferenza dedicata alla corsa ai metalli rari. Si parla di investimenti, tesoreria, margine lordo, raccolte di fondi, strutture di costo, capitalizzazione di mercato, produzione media annua… Le prospettive di crescita delle tecnologie verdi sono grandiose e l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) prevede che entro il 2040 la percentuale di fonti rinnovabili nella produzione mondiale di elettricità arriverà al 33, contro il 21 per cento del 2012. Ma in mezzo a questo grande teatro del mondo minerario, a maggioranza maschile e ben vestita, ci sono due personaggi che impediscono a questo piccolo mondo di girare a vuoto. Il primo è il canadese Bernard Tourillon, direttore di Uragold, azienda che produce materiali per l’industria solare, il quale ha calcolato minuziosamente l’impatto ecologico dei pannelli fotovoltaici. La sola produzione di un pannello solare, tenuto conto in particolare del silicio che contiene, genera più di 70 chili di CO2. Con un numero di pannelli fotovoltaici che da qui in avanti aumenterà del 23 per cento su base annua, significa che le istallazioni solari fotovoltaiche produrranno 10 gigawatt di elettricità supplementare ogni dodici mesi, rigettando nell’atmosfera 2,7 miliardi di tonnellate di carbonio, ovvero l’equivalente dell’inquinamento generato in un anno dall’attività di circa 600 mila automobili. L’impatto è ancor più pesante quando ci si concentra sui pannelli che funzionano a energia solare termica: alcune di queste tecnologie consumano fino a 3.500 litri d’acqua per megawatt/ora, il 50 per cento in più di quella necessaria a una centrale a carbone.

 

Dato ancor più problematico se si considera che le aziende solari sono molto spesso situate in zone aride, dove le risorse d’acqua sono per l’appunto rare. Il secondo guastafeste è John Petersen, un avvocato texano che ha lavorato a lungo nel settore delle batterie elettriche. Dopo aver guardato i numeri da tutte le angolazioni, consultato numerosi studi universitari e condotto ricerche in proprio, è giunto a una conclusione singolare. Torniamo al 2012: alcuni ricercatori dell’Università della California Los Angeles decidono di comparare l’impatto di carbonio di un’automobile tradizionale alimentata a petrolio a quello di un veicolo elettrico. Prima scoperta: la fabbricazione di un’automobile elettrica, che si presume consumi meno energia, ne richiede molta di più rispetto a quella richiesta dalla lavorazione di un’automobile tradizionale. Ciò si spiega nello specifico con le loro batterie, generalmente agli ioni di litio, che sono pesanti, pesantissime… Pensate che quella utilizzata per il modello S della celebre marca americana Tesla costituisce da sola il 25 per cento del peso totale dell’automobile, ovvero 544 chili, la metà del peso di una Renault Clio. Le batterie a ioni di litio sono costituite dall’80 per cento di nichel, dal 15 di cobalto, dal 5 di alluminio ma anche da litio, rame, manganese, acciaio e grafite. Sappiamo già in quali condizioni questi minerali vengono estratti in Cina, Kazakistan o Repubblica Democratica del Congo, e a ciò vanno aggiunti la raffinazione e la logistica volta al loro trasporto e assemblaggio.

 

La conclusione dei ricercatori di UCLA è che l’industrializzazione di una vettura elettrica consuma da sola da tre a quattro volte più energia di quella di un veicolo convenzionale. In compenso, quando il ciclo di vita si completa i vantaggi di un veicolo elettrico sono reali, dal momento che, non richiedendo petrolio, le emissioni di carbonio nell’atmosfera sono molto più basse: 32 tonnellate di carbonio dalla fabbrica alla dismissione, rispetto a circa il doppio per un’automobile dotata di un’autonomia di 120 chilometri, mentre l’attuale mercato dei veicoli elettrici progredisce a un ritmo tale per cui oggi nessuna automobile messa in commercio ha un’autonomia inferiore ai 300 chilometri. Una batteria sufficientemente potente da far andare una macchina per 300 chilometri corrisponderebbe, secondo John Petersen, al raddoppiamento delle emissioni di carbonio generate durante la lavorazione del veicolo. E nel caso di una batteria con un’autonomia di 500 chilometri bisognerebbe addirittura triplicarle! Risultato: un’automobile elettrica genererebbe, nel suo intero ciclo di vita, tre quarti delle emissioni di carbonio di una vettura alimentata a petrolio, e con il miglioramento delle prestazioni delle automobili elettriche aumenteranno di pari passo la quantità di energia richiesta per fabbricarle e i gas a effetto serra generati nel processo. Nel mentre il gruppo Tesla ha annunciato che i modelli S saranno d’ora in poi dotati di batterie che superano i 600 chilometri di autonomia e che presto, come promesso dal presidente Elon Musk, raggiungeranno gli 800 chilometri.

 

Conclusione di John Petersen: “Per quanto i veicoli elettrici siano tecnicamente realizzabili, la loro produzione non sarà mai sostenibile dal punto di vista ambientale”. D’altra parte numerosi studi dedicati allo stesso tema hanno tratto conclusioni abbastanza simili: un rapporto dell’Ademe pubblicato nel 2016 conclude che “nell’insieme del suo ciclo di vita, il consumo energetico di un Ve (Veicolo elettrico) è nel complesso simile a quello di un veicolo diesel”. Anzi, potrebbe addirittura emettere più CO2 se l’elettricità che consuma provenisse principalmente da centrali a carbone, come succede in Stati come la Cina, l’Australia, l’India, Taiwan o il Sudafrica. Infine, molte domande restano sospese: il ricambio della batteria del veicolo, che spesso si logora in fretta, è stato considerato? Conosciamo con precisione i costi ecologici dell’elettronica e degli altri oggetti di cui questi veicoli sono pieni? Che dire poi dell’impatto ambientale del futuro riciclaggio di queste automobili, ancora in gran parte nuove? Infine, quanta energia sarà consumata per costruire le reti e le centrali elettriche necessarie per questi nuovi bisogni? Come ammette un esperto americano di metalli rari sentito a Toronto, “non è interesse di nessun professionista delle energie verdi dare risalto a questi argomenti… Tutti vogliono credere che miglioriamo le cose, non che regrediamo, non le pare?”.